Come dimostra il Roland Barthes. Dalla vita al testo (Carocci, 2024, pp. 252, euro 27.00) di Guido Mattia Gallerani, il tentativo di descrivere la traiettoria biografica, culturale e politica di Roland Barthes implica ancora oggi più di un problema, a quarant’anni dalla morte dell’autore francese e forse anche a distanza di qualche tempo dalla sua più grande fortuna di pubblico, sia in Francia che in Italia.
Una delle questioni in gioco, ad esempio, attraversa tutta la monografia di Gallerani pur senza condizionarla esplicitamente, per poi esorbitare e richiamare l’attenzione di un pubblico che non è soltanto quello cui è primariamente indirizzato il testo pubblicato per Carocci: se quest’ultima è un’introduzione a Roland Barthes che risulta preziosa per una platea accademica, è proprio sulla soglia dell’accademia (in uscita, e in entrata) che si gioca buona parte della produzione di Barthes, peraltro definita con nelle prime pagine di questo libro come quella di «un saggista che, in quanto tale, si è imposto come scrittore» (p. 9).
Più avanti nel libro, e in diversi luoghi, Gallerani racconta del desiderio di Barthes di essere accolto nel Collège de France, una persistente tensione verso l’ingresso nell’istituzione (nonché verso l’istituzionalizzazione della sua opera) che, quando si risolverà positivamente nel 1976, sarà per Barthes, nelle sue stesse parole, niente meno che incipit vita nova (da un progetto di romanzo, rimasto incompiuto, del 1979). D’altra parte, Barthes rimarrà sempre attaccato a un’idea alta di dilettantismo – nel campo della pittura e della musica, ad esempio – e, soprattutto, non dismetterà mai il proprio lavoro di trasformazione della scrittura critica, non soltanto verso la cosiddetta nouvelle critique (“critica nuova”), ma anche come tentativo di svincolarsi dai lacci e lacciuoli di una tradizione accademica ancora poderosa nel momento in cui Barthes aveva iniziato a pubblicare.
Sulla soglia dell’istituzione, Barthes appare allora come un intellettuale non (strettamente) accademico, alla stregua di altri che, nel secondo Novecento, sono rimasti fuori dall’accademia, come John Berger, o vi hanno lavorato per qualche tempo, come Susan Sontag. Rispetto a quest’ultima, Gallerani delinea, tra le righe, un rapporto piuttosto costante, pur nella distanza tra le persone e le opere che non può presupporre alcuna filiazione diretta (in un’ottica pienamente comparatistica, dunque, per restare al principale ambito di ricerca dell’autore): oltre ai richiami testuali tra il Piacere del testo (1973) e Contro l’interpretazione (1966), nonché tra La camera chiara (1980) e Sulla fotografia (1977), anche l’esperienza della tisi che segna la giovinezza di Barthes può essere letta attraverso il filtro di Malattia come metafora (1978) di Sontag.
Del primo, invece, Barthes non può condividere l’approccio anti-accademico che assume talvolta tinte populiste, pur restando dentro lo stesso alveo di una trasformazione dei saperi che anche Berger – formatosi alla scuola berensoniana della critica d’arte – promuove. Ed è qui il punto che esorbita forse dal testo di Gallerani, pur venendone spesso sollecitato: cosa fare oggi di una critica dell’accademismo (così diffusa che l’aggettivo “accademico”, in luogo di aggettivi meno frequentati come “universitario” e “specialistico”, assume spesso una connotazione negativa) che spesso si risolve in un vezzo moralistico, nel riflesso di una volontà di posizionamento o nella ricerca di uno specifico capitale culturale, ma che spesso non è altro che la riproposizione dell’anti-intellettualismo della tradizione borghese?
In passato, entro uno specifico contesto storico e politico-economico – che permetteva una certa mobilità, prima che una certa trasformazione, sociale – la critica dei saperi accademici è stata dirompente, dentro e fuori dall’università, anche da parte di chi come Barthes voleva essere accolto nella massima espressione dell’accademia francese. Critica e verità (1966), ad esempio, appare fin da subito come un testo-cardine per «un ripensamento dei rapporti tra testo, critico e lettore in cui anche altri, studiosi coevi o futuri, si possano riconoscere» (p. 81), compresi quegli studenti ancora immaginati come recipienti passivi dai professori della Sorbona dell’epoca – come quel Raymond Picard con cui Barthes avrà una piccata querelle sull’interpretazione di Racine – ma che presto avanzeranno le loro rivendicazioni nel corso del Sessantotto.
Oggi, invece, tale critica dei saperi sembra agita su livelli diversi – come appropriazione di quella teoria/theory funzionale ai propri posizionamenti politici e alla militanza, da un lato, o come squalificazione moralistica (un tempo si sarebbe detto “filistea”), dall’altro – con la scomparsa di un orizzonte ulteriore, come quello che ci si è dati, o che almeno ci si è provati a dare, nel periodo che va dagli anni Cinquanta agli anni Settanta del secolo scorso.
Questo appunto sulla contraddittorietà dell’anti-accademismo non esaurisce, naturalmente, quel che si può trovare nel Roland Barthes di Gallerani. Come molte altre pubblicazioni della collana “Frecce” di Carocci, la struttura del libro ricalca quella di una biografia intellettuale, divisa in capitoli dalla tripartizione piuttosto netta: contesto biografico e culturale come genesi delle opere; presentazione analitica di queste ultime; storia della loro ricezione. È un’impostazione chiaramente storicista e in questo, forse, poco barthesiana, o meglio, simile alla passione barthesiana per le schedature degli argomenti studiati, ma certamente lontana da quella impresa eterodossa che è il Barthes di Roland Barthes (1975), per avvicinarsi di più alle biografie barthesiane periodicamente pubblicate in Francia (tra le quali Gallerani cita spesso il Roland Barthes di Tiphaine Samoyault, pubblicato nel 2015), nel centesimo anniversario della nascita dell’autore; d’altra parte, è sicuramente una struttura che permette di seguire anche altri sentieri, da un capitolo all’altro.
Si può tracciare, in primo luogo, la costellazione di modelli – soprattutto letterari: Gide, Michelet, Brecht, il Michel Butor di Mobile (1962), e infine Proust – attraversata da Barthes durante tutta la sua vita, notando come i riferimenti per la sua attività più squisitamente teorica o critica siano tutti riferibili alla temperie strutturalista (dalla linguistica di Hjelmslev agli studi del poco più anziano Greimas), con una punta di inevitabile rivalità per un maître à penser del secondo dopoguerra francese molto più riconosciuto come Jean-Paul Sartre. Questa annotazione fa il paio con un altro punto sollevato da Gallerani, e che risulta già di per sé illuminante rispetto ai limiti storici e politici della fase strutturalista dell’opera barthesiana: il vero “libro di metodo” dello strutturalismo di Barthes non è di interesse squisitamente letterario, trattandosi invece dell’analisi semiologica contenuta nel Sistema della moda (1967). Alla letteratura – cui Barthes guarderà sempre con la passione, forse anche un po’ reverenziale, di uno “scrivente” che vuole diventare “scrittore” (terminologia da lui stesso proposta in Critica e verità) – Barthes dedicherà sempre uno sguardo meno vincolato da precisi quadri interpretativi, come sarà poi evidente nella fase della sua produzione successiva all’adesione strutturalista: non solo, com’è noto, con Il piacere del testo, ma anche con S/Z (1970).
Quest’ultima opera, dedicata alla lettura di Sarrazine di Balzac, è forse il libro dove Barthes convoca più metodologie critiche nello stesso luogo, affiancando ad esempio semiologia e psicanalisi, e anticipando, secondo Gallerani, alcuni sviluppi oggi ricondotti entro l’alveo dei Gender Studies (p. 138), campo di studi dove, anche per effetto di notevoli pressioni ideologiche e sociali, si ripropone spesso la soglia tra ciò che è “accademico” e ciò che non lo è.
Barthes, infatti, intravvede già in S/Z un approdo teorico, come quello del “neutro” – elaborato talora in consonanza, talora in modo idiosincratico, se vi si riflette ex post a partire dall’ambito dei Gender Studies – poi sviluppato all’interno di un corso al Collège de France, proposto soltanto di recente come pubblicazione a sé stante sia in Francia che in Italia: Il Neutro (a cura di Augusto Ponzio, Mimesis, 2022).
Inoltre, S/Z è l’ultimo libro in cui l’attività critica si presenti a Barthes come l’esercizio di un metalinguaggio – concezione peraltro cara ad un altro pilastro degli studi letterari del secondo Novecento e anche del primo scorcio del ventunesimo secolo come Fredric Jameson – prima di arrivare a un approccio alla ricerca, e a tratti di una fuga in avanti, in cui la “passione del senso” domina sul più freddo approccio strutturalista, rintracciabile nelle opere di Barthes degli anni Settanta. Periodo in cui Barthes diventa infine autore di culto, in particolar modo per i Frammenti di un discorso amoroso (1977), ma perde gradualmente appiglio politico, mantenendo intatta soltanto quella fede «escatologica e utopica» (p. 38), più che socialista, che serpeggia in molte sue opere, a partire forse dal Grado zero della scrittura (1953).
Nella seconda metà degli anni Settanta, in altre parole, si verificano sia un maggiore riscontro di pubblico, fuori dall’accademia, sia quell’accoglienza al Collège de France che hanno marcato la creazione del “personaggio-Barthes”, secondo un fascino durato a lungo, ma che forse oggi inizia a sgretolarsi. Ripercorrere l’intera traiettoria di Roland Barthes (come si propone di fare Gallerani, realizzando con successo un’introduzione e un’analisi esaustiva di un autore, di fatto, assai prolifico) aiuta invece oggi a proporne un profilo, come scrive Gallerani, «non più centrale, ma sempre utile» (p. 219), anche per la capacità che ha avuto di mettere in discussione, creare e poi abbandonare vari paradigmi, non rivelandosi mai, in questo, “accademico” nel senso deteriore del termine che oggi appare così invalso nell’uso.
Roland Barthes. Dalla vita al testo (Carocci, 2024) di Guido Mattia Gallerani indaga la biografia intellettuale e l’opera di Barthes, rivelandone il rapporto ambivalente con l’accademia e la tensione verso una critica letteraria capace di reinventarsi, tra rigore e sperimentazione. Gallerani segue l’evoluzione del pensiero di Barthes, dalla precisione strutturalista all’intimità innovativa di opere come Frammenti di un discorso amoroso e S/Z. Il volume riflette infine sull’eredità intellettuale di Barthes, ancora oggi preziosa per affrontare la sfida tra sapere tradizionale e nuovi orizzonti critici.