Qui su Pulp si parla di scuola. Della scuola come abitudine sociale ha parlato Alberto Abruzzese, e subito dopo Roberto Maragliano ha proposto una riflessione sulla complessità della scuola nel suo difficile rapporto con la società. Quel che accomuna i due interventi, diversi per scrittura e taglio, è una lettura che considera quello scolastico un ambiente comunicativo. Si tratta di un approccio non condiviso da tutti, soprattutto da quanti si occupano a vario titolo di scuola e formazione, ma che si rivela utile per provare a sciogliere dei nodi non a caso irrisolti da tempo, in Italia come altrove.
Cosa significa leggere le pratiche scolastiche (e universitarie) soffermandosi sulle logiche comunicative che le informano? In primo luogo significa riconoscere lo storico legame privilegiato delle istituzioni educative con il medium tipografico, che ha fatto da sfondo all’esclusione quasi sistematica dei “saperi segnati dalla presenza delle immagini soprattutto in movimento, dei suoni, delle azioni”. In tanti hanno ragionato sul parziale immobilismo di scuola e università di fronte a un mondo e a una società dinamica e in perenne cambiamento, e alcuni hanno sottolineato come l’utilizzo costante di retoriche della crisi sia stato – e continui a essere – rivelatore di un atteggiamento culturale passatista e regressista. Come sa chiunque si occupi di formazione e aggiornamento professionale nelle scuole, una delle risposte più tipiche che seguono la proposta di adottare diversi indirizzi metodologici e diversi set comunicativi è “io ho sempre fatto così, perché dovrei fare diversamente?”. Si dirà che cambiare per cambiare non ha alcun senso, ed è effettivamente vero che oltre alle proposte sensate ci sono le retoriche dell’innovazione per l’innovazione e le iniziative prive di sostanza. Insomma, si sta tra un mondo in rovina e la rivoluzione.
Con sguardo più laico possiamo invece fare uno sforzo interpretativo e riconoscere che in realtà il cambiamento – che potremmo definire come attualizzazione di futuri possibili – non è altro che uno stato di continua metamorfosi culturale e tecnologica che ci accompagna sin da quando esistiamo come specie. Le due dimensioni della metamorfosi qui indicate, quella “culturale” e quella “tecnologica”, sono quindi da intendersi come parte di un unico processo. Non è possibile infatti separare cultura e tecnologia se non in modo arbitrario, o per essere più precisi: la cosiddetta cultura materiale – ovvero come da definizione “tutti gli aspetti visibili e concreti di una cultura, quali i manufatti urbani, gli utensili della vita quotidiana e delle attività produttive” – è parte integrante della vita culturale di una società. Da molti la cultura materiale – e dunque anche la tecnologia – viene interpretata a senso unico in modo quasi spirituale come un “prodotto” della cultura, invece che come componente inestricabile che contribuisce a dare forma alla conoscenza e al tipo di interazioni che si possono avere con il mondo. Se è vero che alcune tecnologie emergono per via di spinte e desideri sociali preesistenti, è anche vero che l’adozione sistematica di alcuni ambienti di vita tecnologici ha facilitato o permesso la comparsa di idee e movimenti prima semplicemente assenti. Si pensi solo all’origine e al destino successivo dei sistemi di scrittura, o al ruolo della stampa a caratteri mobili per la Riforma protestante e la nascita dei nazionalismi, e così via. Solitamente prevale la concezione “spiritualistica” della cultura su quella “materialista”, ma saper vedere la circolarità nella complessità di questi fenomeni può aiutare a inquadrarli meglio.
Se quindi siamo da sempre in continuo mutamento, perché per tanti in ambito educativo è così difficile abbandonare il paradigma della minaccia e adottare quello della ricerca? Nuovi ambienti comunicativi hanno sempre offerto nuovi modi per creare e condividere conoscenza, dunque per imparare. La formula ipo-mediale della coppia lezione/libro non è più sufficiente per garantire apprendimenti significativi e profondi, o per dirla in altro modo: l’adozione sistematica e la conferma di quella formula comporta la rinuncia a opportunità che pure la multimedialità e l’interattività degli ambienti di rete hanno reso evidente da tempo. “Si è sempre fatto così, non vi è motivo di cambiare per inseguire mode futili o edonismo”. Il regime discorsivo della crisi si vuole “critico” ma rifiuta di fatto il rigore analitico per rifugiarsi nel rimpianto ideologico o moralistico. Si adottano così formule di successo utili tra l’altro per vendere tante copie di libri dal sapore nostalgico (es. tra le più usate: “oggi tutti comunicano, ma nessuno dice niente”, “tutti parlano ma nessuno ascolta” etc., ovvero le versioni colte del “dove andremo a finire, signora mia?”). Si vede declino in qualsiasi ambito, perché quanto prodotto oggi non può per definizione essere inquadrato seriamente dal punto di vista culturale o artistico, e via discorrendo. Eppure dovrebbe servirci sapere che in ogni epoca storica si ritrova questo tipo di atteggiamento – o vezzo intellettuale – verso la “pseudocultura del presente” (così Nietzsche definiva la cultura tedesca a lui contemporanea). Ogni regime discorsivo della rovina ha bisogno del barbaro. Da quando abbiamo testi scritti abbiamo anche testimonianze di insofferenza per le generazioni più giovani, rimpianto di quelle precedenti e idealizzazione della loro cultura, tanto che questo modo di leggere il (naturale) cambiamento per molti finisce per essere interiorizzato come un “fatto” e non appunto una lettura distorta.
Eppure se guardiamo a titolo d’esempio i dati rilasciati annualmente dall’Associazione Italiana Editori ci accorgiamo che la fascia che legge di più in Italia è quella che va dagli 11 ai 14 anni. Ergo: sono gli adulti a leggere meno, si legge meno man mano che si diventa adulti. Le ricerche internazionali mostrano poi che le persone oltre i quarant’anni hanno più difficoltà a riconoscere le cosiddette fake news rispetto alle persone più giovani. Da questo punto di vista allora sembra che il nuovo non sia così brutto come lo si dipinge, e che forse la questione educativa vada inquadrata in altro modo. Le responsabilità solitamente addossate ai più giovani (“non vogliono studiare”, “non hanno interesse ad imparare” etc.) vanno ricercate con più accuratezza in chi i sistemi educativi li gestisce. In chi dà loro la forma che hanno. In chi lavora per mantenerli sostanzialmente immutati nel tempo. Se si crede nel feticcio di una supposta “vera” cultura, e che questa risieda unicamente nel sistema scuola-università e nel libro, allora la bassa cultura – il va sans dire – è quella associata ai consumi, ai media, alle reti. Da questo punto di vista, la conoscenza è intesa come qualcosa che è limitato a ciò che la tecnologia a stampa può veicolare. Il libro non viene visto né considerato per la sua natura di medium, la scrittura non ha una identità tecnologica ma è vista come modo naturale della conoscenza per un essere umano immaginato come puro lógos. Così facendo, però, non si difende un confine ma lo si inventa. Meglio ancora: lo si re-inventa continuamente.
Naturalmente considerare le reti, con le loro logiche, infrastrutture e i loro utilizzatori secondo un’ottica di apertura e di attenzione alle opportunità educative non è semplice in un paese che fa fatica a voler riconoscere un ruolo non intrinsecamente negativo al cambiamento sociale, culturale e tecnologico. Se si pensa alla generalizzata povertà del dibattito sulla cosiddetta “didattica a distanza” sperimentata da molte scuole (e università) si può ben comprendere quanto spesso le letture condivise che hanno successo siano rovesciate rispetto a quelle più utili. Si parla di rovina del mondo scolastico e universitario associando l’affermazione all’utilizzo di ambienti e piattaforme di rete, con tanto di identificazione tra “vera didattica” e “faccia a faccia” (compresenza fisica in uno stesso spazio) e auspici di un ritorno a ciò che è sempre stato. Sulla base di tale assunto, infondato sui piani epistemologico e metodologico ma ritenuto comunque indiscutibilmente vero, non si vede dunque la sclerotizzazione di un mondo in rovina – qui sì ha senso il termine – che è tale in quanto incapace di aggiornarsi e mutare.
Eppure l’anno appena trascorso ha consentito a non pochi, all’interno dei sistemi educativi istituzionali, di lavorare sulle potenzialità connesse a strategie di formazione che tengano conto delle opportunità offerte dagli ecosistemi comunicativi contemporanei. Molte persone hanno acquisito la consapevolezza di avere di fronte il meccanismo particolare di un insieme complesso, che non ha senso tenere separato dal resto delle esperienze umane – soprattutto quando l’interesse di chi educa dovrebbe concentrarsi sul futuro di chi a scuola va per socializzare e imparare. Si parla spesso di “rimettere al centro lo studente”: potremmo allora chiederci se lo studente sia mai stato al centro, e soprattutto se sia possibile ragionare su scuola e università senza necessariamente partire da bisogni, desideri ed esperienze presenti e future che non siano unicamente quelli dei docenti e dei decisori politici. Intendere la scuola nella sua natura di ambiente comunicativo può dunque aiutare ad ampliarne gli orizzonti e l’inclusività, sfruttando le opportunità offerte da spazi e tempi aumentati e dagli ambienti abitati al di fuori delle aule sia dai docenti che dagli studenti. Ripensare il tempo, lo spazio e in definitiva lo spazio-tempo dell’apprendimento si impone come passaggio imprescindibile in questa direzione.