Per una strana maledizione, ancor oggi nel vecchio continente tutto quanto concerne l’“Est” in senso geopolitico è connotato come “ex”. Orfani adulti di un mondo defunto, decine di Paesi si trovano costretti a mantenere solo per i nostri occhi un misterioso quanto costante legame ereditario col loro passato. Anche qualora alcuni di essi vantassero un’appartenenza pluriennale alla grande famiglia UE, la nostra visione retrospettiva non cederebbe di un millimetro. Il massimo che possiamo concedere all’intero Oriente nostrano, oggi misurato in Euro, è l’attenzione al progressivo distacco da quanto di residuale è rimasto del suo vecchio codice genetico. Quasi che milioni di persone fossero condannate a un periodico test di maturazione civile.
Slavenka Drakulić è una scrittrice che ha sempre saputo unire la rigorosa determinazione delle lotte femministe alla meticolosa rivelazione delle fragilità proprie del mondo femminile, soprattutto nei tempi tragici delle guerre. Eclettica al punto da alternare la favola esopica al romanzo biografico, lo stile kafkiano al reportage, Drakulić è anche una delle ultime voci pienamente jugoslave (senza ex) il cui “ritorno” giunge in un anno nel quale sono venute a mancare molte figure della leva dei non-allineati, come Dubravka Ugrešić, Dušan Veličković e Dzevad Karahasan.
Sorge quindi istintivo domandarsi perché una pensatrice e attivista di tale spessore dovrebbe sentire l’esigenza di pubblicare il sequel nemmeno troppo aggiornato – i saggi brevi contenuti nella raccolta spaziano approssimativamente dal 2011 all’inizio del 2020, solo in uno di essi si allude all’incipiente pandemia da Covid – di una sua opera, intitolata Caffè Europa e uscita in Italia nel 1997. Forse perché il “ritorno” è un momento inevitabile quanto delicato e prezioso per ogni generazione di profughi? O perché il Caffè Europa di allora è nel frattempo diventato uno Starbucks, antonomasia del peggior capitalismo?
In qualche modo, l’Est non gravita verso est, specialmente quando puoi andare a ovest (p.48)
Con questo aforisma autoironico, Drakulić introduce il racconto della sua tardiva prima volta da intellettuale in Ucraina (era il 2014). E qui forse possiamo cogliere in nuce la ragione essenziale del sequel: la tendenza a considerare l’Europa orientale un eterno universo ex può sì portare alla formazione di logoranti stereotipi anacronistici, ma anche alla creazione di un pubblico di lettori fidelizzati, pienamente occidentali, che per nostalgia emotiva o per ortodossia ideologica finiranno per considerare le differenze sancite dalla Guerra Fredda come un validissimo parametro di comprensione del presente.
A questo proposito è interessante notare come l’edizione inglese del primo Caffè Europa riportasse in copertina la foto dell’autrice, in puro stile anglosassone, mentre l’edizione italiana avesse optato per una soluzione visivamente dozzinale: foto sfocata di un interno generico e caratteri grafici decisamente stonati, tanto per tipologia quanto per disposizione. Dopo venticinque anni, l’edizione inglese sceglie una fotografia d’epoca che allude simpaticamente al carattere ribelle/femminista dell’autrice, laddove l’edizione italiana strizza palesemente l’occhio al pubblico vetero-nostalgico con una copertina in stile Goodbye Lenin. Il mercato librario europeo sembra dividersi più tra gusti settentrionali e meridionali, che tra oriente e occidente. Il sospetto che l’autrice voglia quindi parlare alla nostra indole, più che alla nostra ragione, si fa forte fin dall’inizio.
Affrontando ad esempio il tema dell’ “apartheid alimentare” (iperbole decisamente esagerata) che discriminerebbe l’Europa orientale nella qualità dei prodotti delle multinazionali, Drakulić sembra dimenticare che a Est il settore agricolo e dell’allevamento hanno da sempre una diffusione molto più capillare che a Ovest. E tale diffusione garantisce spesso approvvigionamenti di tipo locale molto più sani ed ecologici di quelli dei supermercati. Rivendicare quindi il “diritto” di tutti i consumatori europei a mangiare gli stessi prodotti surgelati importati con le stesse quantità di materia prima (carne, pesce, ecc.) senza variazioni tra Est e Ovest appare davvero una causa misera.
Lo stesso possiamo affermare del capitolo dedicato ad Angela Merkel e alla “crisi dei migranti” dell’estate 2015. Il ritratto della potentissima ex cancelliera tedesca è incentrato sull’affettività[1], e questa affettività è integralmente caratterizzata dal suo essere Ostdeutsche – ovvero una ragazza della Germania Est che ha fatto carriera a Ovest. Della politica economica di austerità, delle spaventose conseguenze continentali, della bancarotta greca l’autrice sceglie di non parlare. Parla invece della decisione (a suo giudizio “improvvisa”) di sospendere il Trattato di Dublino: scelta che permise a milioni di migranti di giungere in Europa tra l’agosto e l’ottobre del 2015, perché la Merkel “in quanto Ostdeutsche non poteva tollerare confini, muri e filo spinato”. Ma questa visione da Wonder Woman internazionalista cede subito il passo al cinico realismo: “l’errore della Merkel è stato lasciarli passare senza alcun processo di registrazione, praticamente senza alcun controllo”, scrive curiosamente la Drakulić, dimenticandosi che la nefasta metafora dell’inondazione [5] incontrollata è la stessa che fu coniata per le popolazioni balcaniche degli anni ’90, a partire dagli albanesi.
Il contraltare della Merkel, secondo gli schemi retorici dell’autrice, è Viktor Orban. Che però in quegli anni fu parte integrante dello stesso gruppo parlamentare europeo della ex cancelliera (e anche questo l’autrice non lo scrive).
Piuttosto basso e tarchiato, con una pancia in espansione che la dice lunga sul suo disdegno per corpo e aspetto (dopotutto in Europa dell’Est è sufficiente essere uomo!)… Orban è praticamente l’immagine del macho est-europeo. Per quanto ci provi, veste male [al contrario della Merkel, ovviamente, ndr.]: le camicie sembrano sempre troppo strette e i completi da due soldi, anche se di sicuro non lo sono.(p.82)
Tra tutte le descrizioni lombrosiane che io abbia mai letto di Orban, credo che questa collezioni il maggior numero di elementi nefasti in uno spazio minimo: dal body shaming al classismo nel dress code. Ma soprattutto fa comprendere molto bene a quale livello patetico sia ridotta certa critica politica femminista postmoderna da quando è divenuta esclusiva predilezione di genere (donna = bene; uomo = male).
Decisamente meno superficiali, invece, sono i capitoli riguardanti l’Ucraina del triennio 2014-2016 e le commemorazioni della Primavera di Praga avvenute nel 2018. Drakulić dimostra in questi saggi che la sua diegesi storico-antropologica migliora esponenzialmente qualora prenda avvio da un frammento “in bianco e nero”: una foto del Primo Maggio di Lviv/Leopoli nel 1968, ad esempio, o il ricordo ancora intenso del suo personale passaggio a Praga nel 1970, in piena occupazione sovietica. Drakulić nel raccontare la visita semi-clandestina sul luogo del martirio di Jan Palach scrive stupendamente: “sentii un’acuta consapevolezza della storia”. (p. 109)
È proprio questa sensazione che invece si smarrisce in molte delle successive parti del libro, dove l’estrema eterogeneità degli argomenti trattati diventa uno dei limiti maggiori: accostare in successione un noioso capitolo sulle proprietà catastali in Croazia (Lost in Transition) e uno drammaticamente ben scritto sul significato dei monumenti storici, intitolato L’Olocausto e il furto della memoria, sembra davvero frutto di un pessimo scherzo editoriale. Anche l’insistente ricorso ai dati statistici – innumerevoli nel capitolo riguardante Venezia[3] – o l’istintivo confronto personale tra la Jugoslavia che fu e le altre nazioni dell’Est generano la sensazione che Drakulić abdichi spesso alla sua acutezza intellettuale per ripiegare su parametri più opportunistici, capaci di suscitare immediatamente nel lettore le reazioni che l’autrice desidera.
La recente scomparsa di Milan Kundera, forse il maggiore narratore indiretto della Primavera di Praga e uno dei vertici di quel mondo “Est” che sempre resterà ex, ha riportato alla ribalta dei social molti passi de L’insostenibile leggerezza dell’essere. In uno di questi lo stesso Kundera afferma: “Se la Rivoluzione francese dovesse ripetersi all’infinito, la storiografia francese sarebbe meno orgogliosa di Robespierre. Dal momento, però, che parla di qualcosa che non ritorna, gli anni di sangue si sono trasformati in semplici parole, in teorie, in discussioni, sono diventati più leggeri delle piume, non incutono paura”.
Il “Caffè Europa” non è di certo paragonabile alla ghigliottina, ma tornarci dopo due decadi e un lustro con un bagaglio di strumenti interpretativi datato può trasformare anche le migliori intenzioni in sterili vezzi borghesi, in abitudini stanche da radical chic o in futili tentativi di incardinare il mondo su binari ormai arrugginiti.
[1] “Mi ricorda mia zia Maria… Angela ha l’aspetto dello stereotipo materno dell’Est Europa… Ogni vota che la vedo in TV, il suo volto mi sembra così familiare che mi fa ricordare quando la zia mi portava in spiaggia o a prendere il gelato” (brani tratti da pag. 66)
[2] Nel libro a pag. 76 l’autrice scrive: “L’Europa non aveva un piano comune su come fermare l’inondazione”. Confido vivamente in un grossolano errore di traduzione del sostantivo.
[3] La musica del futuro – Italia 2011: vecchia Europa, nuova Europa, Europa in cambiamento (pagg. 271-296). Considerando che il testo è datato 2011 appare curiosamente anacronistico che l’autrice scriva “Se a Venezia la vecchia Europa sta morendo, allora a Bari sta emergendo quella nuova. È uno dei punti di entrata degli immigrati in Europa”, quando l’intera immigrazione allora si era già spostata dall’Adriatico al Mediterraneo e proprio quell’anno solare iniziò con la celebre “Emergenza Nordafrica”