Quando Siri Hustvedt si sente gettare addosso l’etichetta di “moglie di Paul Auster” (il signor Auster), prova una sincera sorpresa, ripensa alle sue idee sul termine “mentore”, ripensa all’idea di vita che aveva scelto, ai programmi di scrittura seguiti da un certo punto della propria esistenza in avanti. La “memoria” (di cui siamo formati) la riporta alle sue origini nordiche, mentre si adatta alle modalità quotidiane in una metropoli come New York. Solo una scrittrice, Djuna Barnes con La foresta della notte, indusse Siri venticinquenne a scrivere riflessioni meravigliose su quel romanzo “rivelato” da Eliot. E a volerle condividere in una lettera a Barnes quanto meno azzardata essendo risaputa la misantropia dell’autrice ormai da anni rinchiusa nella sua dimora di Greenwich. Siri non credeva che quel romanzo fosse così incomprensibile come certi professori alla Columbia sostenevano. Il fatto è che alcuni di loro la guardavano come fosse Grace Kelly, glielo dicevano e si chiedevano cosa lei ci facesse all’università. Come lavorare senza dubbi ed equivoci in simili circostanze? “Ero e sono una femminista”, “Cosa c’entrava il mio aspetto?”. Era il 1980, Djuna Barnes rispose due anni dopo con una sola enigmatica frase: “Cara signorina H., la sua lettera mi ha messo in grande difficoltà”. Morì un mese dopo, a novant’anni. Certe scrittrici rivelano le proprie intelligenze profonde e moderne creando una nuova classicità, votandosi a pesi specifici ben diversi dai correnti, e uccidendo eventuali mentori aggirantesi nei paraggi.
In questa straordinaria raccolta di saggi, l’esplorazione dei mezzi letterari è strettamente connessa alle relazioni quotidiane, mobili o perenni che siano: cassa di risonanza poderosa dove le gerarchie fra mentore/allievo, per esempio, vengono approfondite sul campo. Il capitolo “Fantasmi di mentori” è radicale in proposito, e centrale nell’organismo formativo del libro: Hemingway si ribella alla mentore Stein dopo esser entrato in casa sua. Beckett come assistente di Joyce fa prendere una bella cotta a Lucia, figlia di quest’ultimo. Beckett doveva liberarsi dell’influenza di Joyce. Paul Auster, molto prima che diventasse marito di Hustvedt, a venticinque anni incontrò a Parigi il suo eroe letterario Beckett, dopodiché dovette faticare per digerirne l’opera fino a quando nei suoi scritti l’influenza non fosse più rintracciabile. Hustvedt racconta che Eros “faceva scorribande” negli ambienti luterani dell’università del Minnesota da lei frequentata, e curiosamente molti professori si arrabbiavano terribilmente dopo aver letto i suoi primi saggi, senza però “mai staccare gli occhi dal mio décolleté”. Un’ostilità facile da capire, col senno di poi. Molti i fantasmi intorno a questi personaggi, ancora di più se dentro ai canoni letterari si aggirano padri e madri e intercambiabilità tra femminile e maschile. “All’epoca si usava il termine androginia”, ma ecco come sia chiaro che “le mutazioni di genere sono presenti nel mio lavoro fin dall’inizio. Una delle mie prime poesie, pubblicata sulla “Paris Review” nel 1983, si intitola Hermaphroditic Parallels”.
Hustvedt ripercorre le regioni della memoria, dalla nonna Tillie alla madre Ester e alla figlia Sophie giunge ai percorsi letterari che la portano da Barnes a Cime tempestose varcando una miriade di confini (prima di tutto maschili), incrociando il sapere della scienza e dei classici. Via dai pregiudizi, studi profondi e pagine di diario giungono agli appunti stesi in una Brooklyn di strade deserte dovute alla pandemia da Covid-19. Tanti sono i numeri (le cifre indicano i morti, non i loro nomi) che ogni giorno invadono gli abitanti di una città affollata il cui volto è cambiato in appena una manciata di giorni. La scrittrice sa di aver a che fare con le parole, che – scrive – sono virali quanto le immagini, abili nel diffondere il proprio contagio: “Una metafora pertinente”. E a proposito di virus come “zombie” Hustvedt si lancia contro le sciocchezze mediatiche di Trump che invoca il pensiero magico come agente capace di sconfiggere l’infezione. L’esplorazione abbatte i confini, non si perda il capitolo “Confini aperti”, entro le prime cento pagine di questo libro: scoprire e riscoprire un lavoro dell’antropologa Mary Douglas è molto più importante di una sottolineatura. In Purezza e pericolo. Un’analisi dei concetti di contaminazione e tabù (pubblicato in Italia dal Mulino nel 1993) una citazione dovrebbe entrare a far parte del nostro pensiero: “Tutti i margini sono fonte di pericolo”. Douglas alludeva al corpo (ma non solo), e Hustvedt chiosa: “In altre parole, il corpo e la politica del corpo non possono essere separati”.