“È una diffusa convinzione – osservava profeticamente Giovanni Arrighi nel suo Adam Smith a Pechino (Feltrinelli, 2008) – che la Repubblica popolare cinese attragga capitali stranieri principalmente grazie alle sue grandi riserve di manodopera a buon mercato, non è così. […] La Cina attira i capitali soprattutto per l’alta qualità della sua forza-lavoro, unita alla rapida espansione delle condizioni di domanda e offerta per la mobilitazione produttiva di queste risorse all’interno del Paese.”
Nel 2020, ottavo anno dell’era Xi Jinping, la sfida cinese si proietta in tutta il suo grandioso e magniloquente pragmatismo su tutti i tavoli che contano per l’economia digitale del futuro – dal 5G alle AI, dalla robotica al quantum computing – prospettando un’egemonia tecnologica quasi certa entro la fine del decennio. Le sue imprese globali si chiamano Alibaba, Baidu, Tencent (owner dell’onnipresente WeChat, applicazione chiave dell’economia cinese mobile), JD.com (e-commerce), Meituan (food delivery); i suoi produttori di device e di infrastrutture – Huawei, Zte, Xiaomi – hanno seppellito competitor come Samsung facendo da ombrello a startup come SenseTime, azienda unicorno e leader emergente dell’intelligenza artificiale, o a piattaforme come TikTok (un miliardo di utenti), il primo social oggi alla conquista del mercato esterno. Per chi conosce i romanzi di fantascienza di Liu Cixin o ha visto un kolossal come Wandering earth, il soft power cinese non è una novità.
È l’altra faccia della “sinizzazione dell’industria digitale mondiale”, secondo la riuscita definizione dell’autore, con cui l’ex Impero di Mezzo ha pianificato il suo ritorno ai vertici della globalizzazione dopo due secoli. Un passaggio epocale e non certo indolore per gli europei, tagliati fuori dalla competizione, ma soprattutto per l’incumbent statunitense, da 20 anni indeciso a tutto e altalenante tra guerra aperta, collaborazione obbligata e paternalismo neo-liberale, lo stesso che 20 anni fa ha accompagnato l’ingresso della Cina nel WTO confidando nella superiorità del modello e nelle istituzioni di stampo occidentale. La strampalata “guerra” commerciale trumpiana, che dietro all’obiettivo dichiarato di raddrizzare il saldo commerciale tra i due Paesi prova disperatamente a rallentare l’avanzata cinese, ne rappresenta solo l’esito più recente e in fondo meno rilevante. Il vero indicatore è piuttosto il gap negli investimenti pubblici per la ricerca, che negli Stati Uniti si è in pratica dimezzato dagli anni Ottanta a oggi (dal 1,2% del PIL allo 0,6%), mentre il numero dei laureati in Cina è decuplicato (da 300.000, nel 1990, a tre milioni, 20 anni dopo).
Simone Pieranni, redattore esteri de Il Manifesto e co-fondatore dell’agenzia di stampa China Files, dopo aver vissuto a Pechino dal 2006 al 2014 racconta ogni giorno la Cina connessa che cambia alla velocità della luce, e la racconta con passione, scrupolo e competenza insolite nel giornalismo italiano, alla larga da facili entusiasmi o semplificazioni distopiche.
Red Mirror passa in rassegna gli asset della rimonta tecnologica cinese e l’impatto dirompente su una società che per riemergere dalla Rivoluzione Culturale ha fatto leva 40 anni fa sulla diaspora dei ricercatori e dei cervelli immigrati in Occidente. Il capitolo centrale analizza il modello dei crediti sociali, gradualmente emerso con approccio tipicamente “try and learn”, da contesti economici e politici assai diversi – dal livello amministrativo locale alle black list poliziesche al credito privato – in un intreccio di tradizioni confuciane dove il benessere comune risulta apparentemente inseparabile dall’accettazione del controllo sociale e dall’ansia per la sicurezza personale. Ma il pregio principale di Red Mirror è – come dice il titolo – quello di svelare la Cina di oggi come il film trailer dove il nostro prossimo futuro esiste già, a cominciare dalle smart city affamate di Big Data – tutte inevitabilmente sostenibili, iperconnesse e sicure – che oggi trovano la loro narrazione e il loro prototipo in città avveniristiche come Xiong’an. Qui si gioca oggi, al di là della volontà di potenza cinese, la partita della cittadinanza e dei diritti di domani. Pieranni ci offre uno scorcio della posta in gioco, che con nomi e piattaforme diverse abbiamo imparato a riconoscere anche in Occidente, dove l’economia digitale della sorveglianza emerge con contorni sempre più “politici”, al centro dello scontro sociale quotidiano.