Simone Olla / Un lungo ballo

Simone Olla, Luce bianca, Catartica edizioni, pp. 104, euro 13,00 stampa

Scrittore, regista, attore, agitatore culturale, Simone Olla non è all’esordio con il romanzo Luce bianca, malgrado le informazioni che si possano eventualmente rintracciare a tal proposito in rete. È un dato che sembra giusto riportare, in apertura, anche allo scopo di dare immediatamente conto, per quanto in modo indiretto, della grande stratificazione letteraria e culturale del romanzo breve pubblicato quest’anno da Catartica. D’altronde, si tratta di un’impressione subito rafforzata dall’ingresso fra le pagine (e ancor di più tra le frasi, tra le parole, tra i suoni) del libro, costruito per successivi accumuli ed elisioni –  giocando, così, tra suono e silenzio, in fitta corrispondenza con i propri riferimenti musicali – in un modo che di certo cattura l’attenzione di chi legge: non di rado si chiede un surplus di sforzo cognitivo, ma lo si fa in cambio di godimento continuo, offerto a ogni punto fermo, talvolta a ogni segno di interpunzione.

Il risultato – dichiaratamente lontano da molta scrittura per così dire “mainstream” (ma senza mai ricorrere allo strumento, tutto sommato facile, dell’ipotassi debordante, di contrasto al dominio della paratassi) – rafforza il contesto, non di rado distopico e allucinatorio, della narrazione. In effetti, la “luce bianca” del titolo non è affatto innocente, ma argutamente rappresentata, nella copertina di Salvatore Palita, da una lampada, che rimanda al più classico degli interrogatori cinematografici, che, per di più, si incunea nella testa di un uomo del quale si vede soltanto la silhouette. Al contrario, come si legge ripetutamente nel testo, è strettamente legata a un “progetto di evoluzione sociale finanziato con fondi pubblici”, espressione in cui, tra l’altro, si può già cogliere quella vena di ironia, e talvolta di sarcasmo, che percorre molte altre pagine.

Si sta parlando del Progetto Manuelli, un programma di sterilizzazione forzata di bambini tra gli otto e i dodici anni che ha, tra le sue vittime, proprio il narratore della storia. In seguito, una volta lasciato l’Istituto Manuelli, il protagonista continuerà a essere tormentato da quel trauma, destinato a riemergere più volte sia nella parte ambientata a Torino, nel 1991, sia nella parte precedente e successiva, ambientate a Cagliari nel 2006. Nel corso della storia, si va così profilando un destino di messa al margine dalla società, una nuova forma di violenza che, tuttavia, permette al narratore di estrinsecare alcune pungenti posizioni critiche, per quanto, di volta in volta, allucinate, paradossali o nichiliste.

“Continuo a credere che la confessione sia una forma di tradimento”, si legge, ad esempio, verso la fine del romanzo. “Un tradimento di intimità nel caso la confessione riguardi la mia persona. Ho capito che si annoia. Secondo me l’hanno capito un po’ tutti qua dentro, ma nessuno lo dice a nessuno, facciamo patti fra singoli, mettendo in difficoltà il resto del gruppo. E questo è ciò che volevano loro: dividerci per controllarci meglio, alimentare il dissidio, evitare la complicità al nostro interno. Sì, ho capito che si annoia”. In questo brano – che si riporta anche per dare conto delle qualità formali del testo, con quell’intrusione di un piano diverso (“Ho capito che si annoia”) che funziona da contrappunto ritmico – emerge una visione della società che, altrove, ha riferimenti filosofici e politici ancora più chiari, ad esempio quando si nomina il noto “passaggio al bosco” jüngeriano.

Si aprono così spiragli verso un preciso orientamento culturale che, pur quando non condiviso, continua a chiamare in causa chi legge, fornendogli non tanto l’ennesima narrazione allucinata del nostro presente complottista, atomizzato, tanto antropizzato da essere deumanizzato, bensì un lungo ballo al suono delle parole dell’autore.

Anche quando sia eventualmente guidato dalla luce della verità, il lettore deve stare attento a dove va a parare; il lettore guidato dalla luce bianca, invece, sa che il suo destino è segnato, ma che, in ogni caso, si deve ballare. E balliamo.