“La nostra anima è una dimora”, scriveva Bachelard ne La poetica dello spazio, geometria immateriale nel cui interno, abissale rimestarsi del nostro vissuto, tutto è “alloggiato”: tanto i ricordi più nitidi, quanto i sommersi dalle torbide acque dell’oblio; e visi e colori e strade e voci; le cose, le nostre, quelle che “non sapranno mai che ce ne siamo andati”, direbbe Borges, e che pure, maestre d’evocazione, sono l’altro nome della memoria; e ancora le case, le stanze e i luoghi che ci hanno visto divenire, specie quel nido, la zolla che ci partorì e da cui aprimmo, principio della meraviglia, finalmente gli occhi sul mondo. Solo a un paesaggio è dato, infatti, d’essere inizio del nostro abitare: prima culla è prima legge, unica radice, dacché ove si nasce è già affondare in una teoria, fare del nostro interno un discorso.
Il disobbediente Thoreau era forse in grado di figurarsi altre campagne se non quelle della sua Walden, e boschi e laghi e viuzze le cui planimetrie battezzò gemelle della propria anima? E quando si fece io quel francese “agitarsi delle siepi” che Wahl, nei Poèmes, elevò a propria sostanza? E non è forse del poeta, più di altri, l’immolarsi delle parole al paesaggio natio, alla semenza promossa a ragione del canto? “Zacinto mia, che te specchi nell’onde del greco mar”, “Maremma ove fiorio la mia triste primavera”, “Sempre caro mi fu quest’ermo colle”: vasi comunicanti, il cantore e il proprio microcosmo si fanno sinolo inestricabile di misura dell’essere e dismisura del poetare, gettità immaginifica e sonora.
Il dove dello scrittore, evidentemente, non è solo spazio geografico, ma il continuo riversarsi di questo nella storia che lì radica i suoi a priori, nell’estetica corale di natura e architettura, e ancora nei suoi uomini, germinazioni epigee in cui trasfigura in coscienza, pensiero e lingua; in breve, paesaggio è dizionario che declina e predica le ragioni di una terra: è parola propria che si offre al poeta. Di questa suggestione Simone Giorgino, raffinato homme de lettres, anima il suo volume necessario, ma puntando la lente su un’area fisica ben delimitata: “è possibile individuare”, interroga l’incipit, “una linea meridionale […] nella poesia italiana contemporanea? Esiste un sostrato comune, un immaginario condiviso o una koinè, che permetta di collegare […] le numerose ed eterogenee esperienze poetiche che si sono sviluppate, nel Novecento e oltre, nel Sud del nostro Paese?”.
La questione, nucleare in Carta poetica del Sud, ripropone e sviluppa, finalmente, l’imperativo che Salvatore Quasimodo mosse settant’anni fa quando, nel celebre Discorso sulla poesia (1953), chiarì la necessità di delineare il profilo letterario altro dei suoi uomini del Mezzogiorno: “le muse dei boschi e delle valli tacciono in loro”, annotava, “rigurgitano invece i boati delle frane e delle alluvioni per le loro mitologie contadine. Faremo un giorno una carta poetica del Sud; e non importa se toccherà la Magna Grecia ancora, il suo cielo sopra le immagini imperturbabili d’innocenza e di sensi accecanti. Là forse sta nascendo la permanenza della poesia”.
Il primo a cogliere quell’invito fu l’ispanista pugliese, nonché poeta, Vittorio Bodini che, per mezzo della rivista “L’esperienza poetica”, provò nei Cinquanta ad agitare le acque della consapevolezza meridiana, a promuovere itinerari di ricerca capaci di rendere sì un’identità lirica, ma anche di incamerarla nel più ampio dibattito nazionale, solitamente arroccato in area settentrionale e viziato ancor oggi, denuncia Giorgino, da disomogeneità e da una certa radicata sciatteria ministeriale che tende a liquidare la letteratura del Sud come “folkloristica riserva da far visitare, […] con le opportune cautele, alle scolaresche […] attratte dall’esotico”. Ben difendendosi dai possibili assedi di un cieco campanilismo, Bodini evidenziò la sostanziale congiura intellettuale messa in atto dall’Italia “ufficiale” a spese della “reale”, dunque dagli ‘istituzionalizzati’ grossi centri di aggregazione culturale contro i confinati alla loro insostenibile solitudine.
Ebbene, di questa “silenziosa diversità” meridiana, direbbe Valli, Giorgino, archeologo dello spirito e del canto, sonda ogni provincia mappando versi e luoghi a sud di Roma, sgranandone ogni poeta e ogni voce, dissotterrando penne e languori e perle di zolla in zolla, poiché se è vero, scrive, che “come un frutto maturo, la poesia assorbe nelle sue fibre più segrete le linfe e i succhi della terra che la nutre”, allora è nello scavare la ragione di questa ricerca. Ed ecco emergere, di pagina in pagina, ogni arillo di questa fitta “melagrana” cui paragona il policentrismo letterario meridiano: “la Lucania arcaica e fuori dal tempo di Leonardo Sinisgalli […] o piuttosto la Lucania più inquieta di Rocco Scotellaro […]; o ancora la Ciociaria dolente e favolosa nella quale Libero De Libero si rispecchia […]; il surrealismo lene e sinuoso del Cilento di Alfonso Gatto, o quello barocco del Salento di Bodini; la Calabria primordiale e apocalittica di Lorenzo Calogero […]; la Sicilia di Lucio Piccolo, con la sua vertigine visionaria o quella di Jolanda Insana, oltraggiata dalla natura […] e dalla Storia […]; e ancora il bradisismo flegreo che vibra nei versi di Michele Sovente” e così via, di viscere e rabbie e litanie, passando per Bartolo Cattafi, Nino De Vita, Albino Pierro, Carmelo Bene e Antonio Prete. Tuttavia l’autore, con una scrittura sempre nitida e gonfia degli incanti che raccoglie, non limita la sua Carta ai soli scrittori nati in quelle terre, ma allarga a chi ha fatto di quel Sud principio dell’ispirazione o ha contribuito a gettar luce sulla sua alterità; Carlo Levi, ad esempio, col suo petroso Mezzogiorno di cristi senza Cristo, d’orologi fermi e furori di briganti, o Cesare Pavese che veste di meridione il mitologico magnetismo delle sue Langhe: un Sud, quindi, che s’eleva a concetto e diviene forma possibile d’ogni luogo, cantilena universale.
Ma qual è questo comune sentire meridiano che innerva le regioni del fu Regno delle due Sicilie? Quali le affinità, il latte e gli umori condivisi che i poeti han celebrato nel canto? L’omogeneità affonda evidentemente nella Storia, partecipando dei medesimi fasti e tramonti; dunque nell’economia, azzoppata fin dai funesti tempi post-risorgimentali; ancora nel clima, spesso tanto torrido da umiliare ogni volizione e da non saper scandire che solo due pigre stagioni; nell’antico genoma greco, quel tondo parmenideo in cui niente diviene perché il nulla non divenga: cos’è il presente, a Sud, se non un’eco del passato, un riesumare archeologico elegiaco e melanconico? Poi nel rimescolio culturale dovuto tanto all’invasore straniero, quanto al privilegio d’esser sul mare, questa porta socchiusa da sempre, ricettacolo di madri secolari di figli spumosi, meticci, martiri ed eroi di una preziosa scommessa umanistica; quindi nella lingua che d’ogni travaso antropologico ha fatto verbo e dialetti; infine nella grigia nostalgia, nel lamento dei tanti migranti partiti, forse fuggiti, a rincorrere altrove qualche dover-essere, negato lì dove tutto non è che eterno ripetersi dell’uguale tempo.
A corredo del denso saggio, Giorgino ci fa dono di una piccola antologia in cui quanto detto riecheggia sonoro nei versi dei suoi poeti. Addentrarsi è assistere a una comunione, all’incarnarsi in piccoli pani dell’unico corpo del Sud, declinato in ogni firma con così tante parole gemelle che il lettore non potrà che figurarsi un solo quadro, la stessa coscienza meridiana, quell’inquietudine bodiniana di chi ignora se sia più lecito amare o odiare la propria narcotica terra.