Martin Amis nel romanzo L’informazione ci parla della dialettica tra due scrittori, di cui uno commette il più grave peccato – il grande tradimento – che possa essere ascritto a un autore: è insincero. Come a volte accade, chi scrive può scegliere di dare al lettore esattamente quello che cerca, nutrirlo di ovvie mediocrità, godendo poi di un docile successo, e dannando entrambi.
Questo è esattamente ciò che non accade in Binari, il breve romanzo di Monica Pezzella uscito da pochi giorni per Terrarossa edizioni nella collana Sperimentali. Si tratta dell’esordio editoriale di una scrittrice già nota nell’ambiente letterario: traduttrice, editor, autrice di numerosi racconti, ha fondato di recente una propria rivista dalle connotazioni ben precise.
In questo romanzo troviamo Marcel, un architetto di successo, amato dalle donne, annoiato e vagamente infelice. Poi c’è Ale, che compare una sera; quello che appare subito chiaro è che ci sarà un tempo prima di Ale e uno dopo di lui, e che queste due epoche non sono miscelabili: “…Marcel aveva intravisto un ragazzo alto e slanciato con i capelli scuri e un po’ scarmigliati davanti in un completo grigio, gli occhi chiari pietosamente smarriti […] Quando qualcuno aveva alzato il bicchiere e l’aveva chiamato schiavo del lavoro, Marcel non stava ascoltando, era impegnato a cercare tra le moltissime ragioni possibili una che sembrasse a lui veramente plausibile del perché ci fosse rimasto male nel vederlo andare via”.
La loro storia è uno scivolare nella consapevolezza di appartenersi, senza alcuna previsione né logica ragione perché questo accada. Ale è attratto da Marcel – così lui stesso dichiara – per la sua apparente normalità, ben diversa dalla vita smodata e asservita che egli conduce, prostituendosi. Ma quello che Marcel cerca è esattamente farsi trascinare il più lontano possibile da sé stesso, dalle sue precisioni geometriche, dalla sua ordinata quotidianità: “Perché quello che [Marcel] vuole da lui è un conflitto di forze uguali e contrarie che in ogni scontro non fanno che annullarsi a vicenda. Vuole che non gli dia pace che non lo lasci dormire che non lo lasci lavorare che gli tolga il tempo che si prenda il tempo che lo rubi a tutto il resto. Vuole l’unica cosa di cui dice di aver paura. Perdere il controllo”.
Marcel scoprirà che l’amore può presentarsi in modo inatteso; ne sentirà il vincolo, la necessità quotidiana del ritorno; capirà che amore è il non poter più utilizzare l’altro ponendolo su un piano diverso, perché questo rituale così sensuale e tragico, così ineluttabile e selvaggio, in cui unendosi ci si dà il piacere e insieme la sete, la pienezza e la mancanza, diviene presto dipendenza, persino gelosia. “Tu parli come la notte / Ti annunci come la sete” diceva Alejandra Pizarnik, e in fondo ognuno in cuor suo lo sa.
L’amore in Binari è indefinibile, sfuggente, è la magia del corpo, è vedere lo spazio tra il colletto della maglietta e la pelle come un precipizio, è capire – per la prima volta – il significato della parola casa: “Qualcuno avrebbe potuto desiderare di guardare dentro la loro intimità e la certezza che nessuno potesse farlo lo teneva al sicuro in un’idea accogliente. Un’idea, pensava, di casa”.
Ale è un randagio, è perduto; ma con la sua fisicità spudorata, la sua vita sul filo, scoprirà in Marcel il rifugio, il riparo, e il terrore della perdita: “I vestiti che Ale gli aveva tolto erano sparsi sul pavimento. Quelli nuovi erano rimasti sulla gruccia appesa alla maniglia della finestra […] una camicia bianca di lino e pantaloni terra di Siena dentro cui si agitava una lingua d’ombra mescolata alle luci che riproducevano la sagoma di un uomo dalle gambe corte e le braccia mostruosamente lunghe e vuote. Vedendoli, Ale capì”.
Ale capisce, come lo capirà Marcel, che se il corpo è il tempio del rituale amoroso, spinto fino alla “schiavitù fisica” del desiderio, è però anche quello – non meno dionisiaco – della malattia, che è separazione e rovina; che l’amore è una voragine senza certezze, una meravigliosa continua sopraffazione, in cui c’è sempre all’orizzonte una resa, che può essere o meno anche un riscatto. Perché questi corpi con cui ci avviciniamo, ci annusiamo, ci diamo piacere, questi corpi che sono merce, gioco, croce, unica possibilità di contatto – sembra suggerire l’autrice – sono come bambini richiamati al tramonto a rientrare: non ci appartengono pienamente, non per sempre; così come questo rassicurarsi, questo stringersi, non ci mette al sicuro da nulla, non ci sottrae dall’unico binario che tutti ci accomuna: “Adesso cos’è adesso è smarrirsi la sera nel letto nel riconoscere nei gesti di Ale un’attenzione in più nel sentirsi voluto diversamente per avere addosso i segni della malattia”.
Borges nel suo saggio La supersticiosa ética del lector (Buenos Aires, Discusión, 1957) parla della predilezione per l’enfasi, per l’elezione di “parole definitive” che affligge molti scrittori: “Ignoro se la musica sappia disperare della musica, e il marmo del marmo; ma la letteratura è l’arte che sa profetizzare quel tempo in cui sarà ammutolita, […] innamorarsi della propria dissoluzione e corteggiare la propria fine”. Non c’è nulla di altisonante, né alcuna affermazione definitiva nella scrittura di Pezzella, ma c’è piuttosto qualcosa di profondamente vero e spaventoso nel suo raccontarci l’identità del corpo, la magia del sesso, l’essenza dell’amore, un sentimento indefinibile, istantaneo, che ci attende con meravigliosa ferocia, a volte in territori inattesi.
La storia di Ale e Marcel sembra formarsi da sola, grazie a una narrazione destrutturata, fluida, ma precisissima. In Binari c’è un uso sapiente di enumerazioni e descrizioni sinestesiche; analessi e prolessi sono ingarbugliate ma soffici, di velluto; il testo è quasi privo di punteggiatura, ed evoca la sensazione continua di essere immersi nella percezione: grigiori urbani, desolati motel, “gli oblunghi blocchi gialli da cui sbucavano i treni” alla stazione, il ronzio di un neon in agonia, i gradini bordati di un azzurro opalescente che portano a squallidi privé, una città che è “il comune caos umano che si dibatte in milioni di buchi”; immagini spezzettate, continue come un pulsare alle tempie, un rumore di fondo costellato di frammenti di informazione, alcuni che ci feriscono come vetri rotti, altri che scorrono logorandoci come un fiume alluvionale, pieno di detriti emotivi.
Il lettore per la maggior parte del tempo è lasciato solo a ricevere questa ondata, inerme e smarrito, mentre il narratore scompare, si fa pura storia e sensazione, sembra voler riprodurre – creando una metafora nella forma – il senso di sopraffazione emozionale dei personaggi; ma in alcuni punti specifici del testo, dichiaratamente, c’è una Voce che si innalza, calda e accorata come un senso di colpa, consapevole come una madre. “Qui ci sono treni ovunque. E solo dopo troppo tempo questa Voce ha capito perché e ha dovuto domandarsi come abbia fatto come sia potuto accadere di non averci mai pensato in tanti tantissimi anni. I treni. Ferrovie. Officine. Il colore rosso chiaro della polvere di ferro l’odore rosso chiaro della saldatura. Dirsi ‘Io lo so chi sei tu’”.
Binari è un libro coraggioso, minuto, potente; una narrazione breve e generosa, profondamente esistenziale. Pezzella spacca il guscio dell’autobiografismo melenso, in cui tanta parte della odierna letteratura sembra impantanata, e smantella con grazia alcune rigidità di pensiero, ricordandoci che ci sono scrittori che – fin dal proprio esordio – non hanno paura a dire quello che non si dovrebbe dire – cioè quello che va assolutamente detto – nel modo esatto in cui va detto.