In un periodo di aggiornamento continuo del concetto di distopia, leggere il più recente romanzo di Giovanni Agnoloni – Viale dei silenzi, per Arkadia editore – non può che riportare alla memoria la tetralogia distopica licenziata dallo stesso autore tra il 2012 e il 2017 con Sentieri di notte, Partita di anime, La casa degli anonimi e L’ultimo angolo di mondo finito, tutti usciti per Galaad edizioni. Quel che si paventava in quella serie di romanzi, infatti, non si è avverato se non in modo speculare: non il crollo della Rete, ma la diffusione di un virus che ha ridotto intere popolazioni all’isolamento e al confino domestico, portando così molti, anche se non tutti, alla perenne connessione.
Ora, se questo conferma come la soglia di un qualsiasi scenario distopico rimanga sempre un passo avanti rispetto ai processi storici che sono contemporanei alla scrittura letteraria – un passo, purtroppo, che si assottiglia sempre di più – leggere Viale dei silenzi indica anche qualcos’altro: ogni distopia si radica saldamente nel presente, con il silenzio della Rete evocato qui sopra che trova la propria origine esistenziale nei “viali dei silenzi” che già ora si possono e devono percorrere nelle nostre vite.
Viale dei silenzi, al plurale, poiché il primo e più importante viale cui fa riferimento il titolo del romanzo è collocato nei pressi di Scandicci, per poi ripresentarsi anche nella seconda tappa del percorso del protagonista, Varsavia, e veder sfumare infine la propria presenza, senza per questo sparire, nella prosecuzione del viaggio, tra Germania e Irlanda. Il viaggio, di dimensioni continentali, è quello del protagonista: uno scrittore del quale conosciamo solo il nome, Roberto, che si mette sulle tracce del padre scomparso.
A questo proposito, e come si perita di chiarire lo stesso autore nei ringraziamenti finali, non si tratta di un romanzo autobiografico: malgrado questo, o forse proprio in virtù di questo dato, le movenze psicologiche dei singoli personaggi sono sempre molto approfondite ed esplicitate in modo netto e lineare sulla pagina. Nessun pericolo di perdersi, dunque, per il lettore, anche sulla lunga distanza: lo sviluppo narrativo non concede alcun spazio all’esitazione, al dubbio, allo smarrimento. Anche quando sembra aprirsi qualche smagliatura nella struttura narrativa, vi è un elemento che interviene a consolidare e rafforzare l’impianto della narrazione, conducendo con la naturalezza di una voce gradevolmente, non banalmente, piana fino allo scioglimento.
Se talora questa chiarezza stilistica toglie spazio all’intervento del lettore, occorre tuttavia annotare come si tratti di un risultato strettamente inerente a uno dei sottotesti più importanti del romanzo: la ricerca del padre non è soltanto una ricerca di verità – che sarebbe radicalmente esposta a tutta l’incertezza esistenziale, psicanalitica o culturale del caso – ma anche un percorso di costruzione della memoria, individuale e collettiva. Questo vale per la Polonia e per l’Irlanda, raccontate con dovizia di informazioni da una penna sicuramente trascinata dalla passione per queste terre e per i loro segni culturali, storici e politici. Vale soprattutto per i “tempi perduti di Firenze […] quelli assorbiti nel terreno spugnoso degli anni ‘90”, già imbevuta della vitalità forse già un po’ ebbra del decennio precedente. È il ricordo di “un nucleo incompiuto di potenzialità che covava in sé un senso aleggiante di declino. Quasi come l’eco perdurante di film come Ad ovest di Paperino di Alessandro Benvenuti” o di alcuni film di Francesco Nuti, si aggiunge altrove, o ancora “di canzoni come Firenze di Ivan Graziani, pur risalenti ad almeno un decennio prima”.
Memoria, forse, di uno sviluppo politico, economico e culturale rimasto incompiuto e, più in generale, di un certo immaginario poi devastato e fatto quasi tabula rasa in anni più recenti: anche da qui vengono gli spettri che tormentano Roberto (nonché l’autore, Giovanni Agnoloni, biograficamente legato a Firenze), spingendolo a un vagabondaggio europeo che è anche un modo di prolungare il viale dei silenzi fino a toccare, o almeno sfiorare, quel che si è perduto.