Anite, nata a Tegea, in Arcadia, fra il quarto e il terzo secolo avanti Cristo. A Tegea vi era il tempio di Atena, primo fra tutti i templi del Peloponneso, costruito dallo scultore Skopas e ammirato da Pausania. In quei luoghi Anite, poetessa dai pochi dati anagrafici, compone epigrammi che si distinguono per la delicatezza orientata ai frenetici eventi del cosmo sotto i quali sottostava il mondo ellenico. La musicalità della sua poesia, l’uso inequivocabile e spesso imperativo dei vocaboli, contrastano il sangue che lei vede scorrere in terra, frutto della forza che guida, e abbandona – in un altalenante gioco olimpico – gli eroi guerrieri omerici. Soprattutto nell’Iliade. La dedica musicalmente rivolta a uomini, donne, fanciulli e animali, riprende i testi antichi integrandoli con una lingua innovativa che sempre sorprende: la vediamo giungere con fili invisibili a cui siamo grati per la tregua offerta ai nostri giorni sanguinosi. Le piccole cose di Anite contrastano la violenza vertiginosa degli dèi, una grazia accompagna i passi degli uomini sofferenti affinché continui a vedersi, nonostante tutto, l’armonia del mondo. Il compianto, che caratterizza l’innata narrativa messa dalla poetessa nei suoi epigrammi, rispecchia pietà e sguardo di salute. È vera partecipazione, non solo simpatia celebrativa per le uccisioni, gli avvelenamenti, l’attacco alla bellezza.
La traduzione di Ugo Pontiggia conduce tutti i temi delle poesie, ne accarezza musicalità e struttura retorica lasciando molti spazi alla corrispondenza. E le delicate descrizioni restano vivide nella nostra lingua, che appare meno lontana dal testo greco di quanto comunemente si pensi. La natura epigrammatica della poesia di Anite accarezza il tema narrativo, basta l’avventura di pochi sceltissimi vocaboli a trasferire nel racconto una realtà fatta di dolori ma intrisa di impulsi fiabeschi: sono questi a decorare le strade dei luoghi ellenici e a riportarci gli odori che impregnavano i templi, a far risuonare le voci dei bimbi nelle nostre stanze fumigose. Battiti d’ali e cavalcate ritornano non tanto come commento a un’èra perduta, non soltanto, ma come espressioni di uno sguardo rivelatore di bellezza, quello a cui abbiamo irrimediabilmente rinunciato.
Riferimenti dionisiaci, immagini naturali e sensuali accadono con l’insistenza intrinseca dell’epoca di Anite, ma se ancora oggi interpretiamo questa voce narrante è merito di chi toglie la polvere sui nostri cammini, contrastando il demerito dei tempi come proprietà manifesta di oscurantisti. Questa poesia conserva in sé la scelta eroica rivolta a eternare (condivise parole di Pontiggia) sentimenti d’amore, d’eros e di pietà verso genti e paesi. Non importa quanto lontani dalla propria casa, o arenati in spiagge che conservano delicatezza contro l’imperativa violenza della morte. L’identità riportata alla luce nella raccolta è augurante e degna d’essere preservata. “Siediti qui, ignoto viaggiatore…”