C’è un verso di Leonard Cohen che, per quanto fuori contesto, mi pare un esordio intonato: “come una ninfomane che stringe moltitudini in strana fratellanza” (“like a nymphomaniac who binds a thousand into strange brotherhood”). Con tutto il rispetto umano (un po’ meno quello letterario) per Rina Faccio, in arte Sibilla Aleramo, nata ad Alessandria nel 1876 e morta a Roma nel 1960, direi che il verso appena citato cattura lo spirito di colei che Giuseppe Prezzolini – forse, chissà, indispettito dall’essere stato uno dei pochi “vociani” a non aver fruito delle sue grazie – definì “il lavatoio sessuale della letteratura italiana”. Più fortunati di lui furono Giovanni Papini e Vincenzo Cardarelli che, a turno o in tandem, non disdegnarono le prestazioni erotiche dell’infaticabile femme fatale; altrettanto aveva già fatto il suo pigmalione letterario, Giovanni Cena – caporedattore di “Nuova Antologia” che introdusse Rina nell’ambiente intellettuale e le suggerì lo pseudonimo Sibilla, profetessa della liberazione femminile, e Aleramo, anagramma di amorale; nè lo fece il suo amante più noto, Dino Campana, che appresso a lei non migliorò certo le sue già precarie condizioni psichiche; non lo fece ovviamente D’Annunzio che lungamente la ospitò al Vittoriale; né Vincenzo Gerace, poeta napoletano che la introdusse al cenacolo di Benedetto Croce; non lo fece Umberto Boccioni, un pittore tanto per variare la dieta a base di poeti; né lo farà Salvatore Quasimodo, sebbene la signora fosse allora già in età e avesse perso in parte la sua fulgida bellezza.
Poligama nomade, a Parigi aveva ringalluzzito l’ormai vegliardo Rodin facendogli da modella e a Capri intrattenuto Maxim Gor’kij (anche la sua emula russa, Aleksandra Kollontaj, militante bolscevica che non si accontentava solo di una rivoluzione politica, frattanto aveva precisato a Lenin: “Per me prendere un uomo deve essere come bere un bicchier d’acqua”, e Lenin impassibile aveva risposto, “Ne prendo atto, però io non berrei mai nello stesso bicchiere dove ha bevuto un altro”). Brevi e turbolenti, gli amori di Sibilla, sebbene privilegiassero abbondantemente i letterati – i maligni, senza sbagliare di troppo, potrebbero ipotizzare motivi di carriera, sottovalutando però la vulcanica passionalità della signora – non si limitavano certo a questi. Il catalogo (degno di un Dongiovanni femmina), include anche politici: Piero Gobetti, per esempio, che per lei tradì la sua Ada o Tito Zaniboni attentatore sfortunato alla vita del duce. Incarcerata per questo legame pericoloso chiese e ottenne un colloquio privato con Mussolini che non solo la prosciolse da ogni accusa ma le assegnò un mensile di mille lire e un premio di cinquantamila lire da parte dell’Accademia d’Italia: cosa sia avvenuto a porte chiuse tra i due possiamo solo immaginarlo, di fatto l’antifascismo di Sibilla, già firmataria del Manifesto di Croce, da allora in poi si intiepidì alquanto.
Non mancano in lista gli atleti olimpionici, come Tullio Bozza, la cui tragica morte le ispirerà il dramma in versi Endimione, e, strano ma vero, nemmeno i “maghi”: è ben noto il ménage à trois della bella cinquantenne con due ventenni romani (per equiparare la sua età uno non bastava…), il massone neo-pitagorico Giulio Parise e l’ex dadaista e futuro teorico del razzismo italiano e, nel dopoguerra, guru del neofascismo Julius Evola. In questo secondo caso la signora rivela un gusto assai discutibile: Evola proprio in quegli anni membro del Gruppo di Ur, confraternita esoterica che tenta di influenzare magicamente il fascismo in senso neopagano avverso ai futuri Patti Lateranensi, scrive, in termini brutalmente misogini, sulla rivista para-massonica “Ignis” il saggio La donna come cosa in cui sostiene che la femmina, lunare, è pura materia amorfa ed è il maschio, solare, a darle forma (questo abborracciato teorema alchemico verrà riproposto da Evola quasi intatto anche in un’opera della tarda maturità, Metafisica del sesso – idolatrato a tutt’oggi come trattato fondamentale di erotologia tradizionalista dai pretesi intellettuali della destra radicale: le rare parti di qualche interesse del testo sono invece pure scopiazzature di Sesso e carattere di Otto Weininger e di La persuasione e la rettorica di Carlo Michelstaedter: attribuirsi meriti usurpati, come il titolo farlocco di “barone”, era una specialità del mediocre poligrafo). Cadute di gusto a parte, Sibilla scrive addirittura un libro su questa relazione complicata, Amo dunque sono (Mondadori 1927, ristampato nel 1982), melodrammatica enunciazione di un sensualismo cartesiano in cui Evola (il cattivo) diventa Bruno Tellegra, “gelido architetto di teorie funamboliche”, e Parise (il buono) qui chiamato Luciano, è oggetto d’amore puro e appassionato da parte della scrittrice. Sulla vicenda esiste un libro recente piuttosto documentato che svela retroscena più realistici e meno favorevoli all’autoincensamento dell’inesausta mangiatrice d’uomini: Simone Caltabellota, Un amore degli anni Venti (Ponte alle Grazie, 2015).
Il pansessualismo bulimico di Sibilla non si risparmia neanche escursioni saffiche: la maliarda mollerà Giovanni Cena per Lina Poletti, la “fanciulla maschia”, cui dedica il suo secondo romanzo Il passaggio (1919), che in seguito, a sua volta, mollerà lei per Eleonora Duse. Molti amanti, spaventati dalla sua ossessiva, straripante passionalità, la lasciano: Campana, Parise, Quasimodo; Enrico Emanuelli, addirittura scappa di nascosto dall’albergo dove risiedono, abbandonandola da sola. Sarà ormai anziana quando reggerà finalmente un decennio intero in compagnia dell’ennesimo poeta, Franco Matacotta, di quarant’anni più giovane di lei.
Ci siamo dilungati sul gossip perché in fondo questa è la principale dimensione di Sibilla, quella autoriale ha il fiato estremamente corto. Nonostante l’importanza che si dava, pretendendo di essere una diva non solo nei salotti ma anche nell’affezione di critici e lettori, Sibilla è ricordata per un libro solo, Una donna, uscito nel 1906 e significativo più per meriti acquisiti, come testimonianza autobiografica e fatto di costume, che per oggettivo valore letterario. L’avventura di una donna (la vera storia di Rina) violentata da un dipendente del padre costretto poi a un matrimonio riparatore che la lega ad un uomo violento che non ama; la difficile decisione di abbandonare marito e figlio e fuggire da sola in un’altra città vivendo dei suoi scritti giornalistici e con l’intenzione di fare la scrittrice, è certamente un’epopea del riscatto femminile e giustamente è stata tradotta nelle principali lingue europee rendendo l’autrice un personaggio noto internazionalmente. Sibilla è la bandiera del femminismo e, almeno per chi conosce un po’ di più la sua storia, la bandiera del libertinaggio femminile, del libero amore, della serialità poligamica. Onore a Sibilla. Ma poi? A parte la bandiera, a parte il gossip, chi è davvero la scrittrice? Alcuni dei suoi libri sono stati ristampati ma senza alcuna risonanza, restano tutti nell’ombra di questa sua prima opera e, escludendo un pugno di scritti polemici sul femminismo, i diari (in cui di nuovo emerge il personaggio e nient’altro), l’epistolario con Campana e Amo dunque sono (che, sia detto senza infingimenti, è solo un polpettone narcisista e melenso), sfido chiunque a ricordarsi anche solo un titolo. Forse, chissà, Il frustino, mai ristampato dopo l’insuccesso totale del 1932, potrebbe incuriosire un po’ di più, trattandosi del suo libro più osè – in certe parti, pare, quasi pornografico – dove Sibilla si fa più esplicita sulle sue innumerevoli e variegate esperienze erotiche. Ci sono scrittrici profondamente calate nel loro ruolo di donne ma capaci di parlare a tutti, di coinvolgere e commuovere sia maschi che femmine, perché il loro sarcasmo, il dolore, la denuncia, talvolta la tragedia, sono universali: scrittrici come, ad esempio, Sylvia Plath, Shirley Jackson, Flannery O’Connor, Alejandra Pizarnik, la cui prospettiva femminile sul mondo sconvolge e meraviglia il sesso opposto, lo rende complice, lo induce attraverso l’ironia, l’humor, la satira, il perturbamento e la catarsi, alla riflessione e, spesso, alla vergogna. Sibilla resta impantanata invece in un’affettata autoreferenzialità narcisistica, in una teatralità da melodramma, in un lirismo umorale e clitorideo che forse potrà trovare qualche possibile consenso tra certi tipi di donne ma che risulta estraneo e del tutto illeggibile per un uomo, quanto Liala o Carolina Invernizio. Eppure il suo stile enfatico non ha niente di femminile ma è debitore di quello di un maschio, anzi di un supermaschio: un dannunzianesimo di maniera, privo della pirotecnia lessicale e sintattica dell’originale.
Il discorso si estende, a maggior ragione, alla poesia che Il Saggiatore, con notevole coraggio, ristampa integralmente e che appare altrettanto esile della prosa e ancor più clitoridea. Raramente in questi versi viene trascesa l’egolatria esibizionistica, l’emotività esaltata e stucchevole: Cardarelli, spietatamente lo scrisse recensendola: “lirismo sordo e senza musica, sforzato e isterico”; Sergio Solmi fu più generoso, parlando di “un lievito di ideali di umanità e fraternità”, ma Sibilla era ormai divenuta, siamo negli anni ’50, una militante comunista e fra compagni, si sa, si è più indulgenti: in realtà la tarda Sibilla, meno lirica e più sociale, propagandista dell’URSS e dei piani quinquennali così come era stata iscritta all’Anfdal, Associazione nazionale fascista donne artiste e laureate, suona ancora più stridente e, tornando alle parole, assai più sincere, di Cardarelli, “vieta e falsa”. Poetesse meno famose di lei rappresentano assai meglio il travaglio lirico femminile, Antonia Pozzi ad esempio, o la stessa Amalia Guglielminetti, ricordata ingiustamente quasi solo per la sua relazione con Guido Gozzano (e per la splendida poesia di addio che lui le dedicò: “L’onesto rifiuto”), che proruppe in fragorose risate durante la prima teatrale dell’unico dramma scritto dall’Aleramo, Endimione, un fiasco clamoroso. Sibilla deve averla odiata molto, eppure, quasi una rivalsa, questa inattuale ristampa del 2023 è sua, della diva, della suffragetta, della poligama, e quasi nessuno si ricorda di Amalia, la bella “intellettuale tremebonda” di Gozzano.