Un libro senza né titolo né fine, un esperimento letterario che, attraverso la poetica del frammento, aspira “recuperare ciò che è andato perso e creare qualcosa di nuovo”. Questo l’obiettivo, ambizioso, perseguito dalla scrittrice armena Shushan Avagyan in Libro senza nome. Come Anna Seghers in Incontro a Praga metteva in scena un impossibile colloquio tra Kafka, Gogol’ e Hoffmann, così Avagyan scompagina il corso della storia immaginando un incontro fra due scrittrici attive tra la fine del diciannovesimo secolo e l’inizio del ventesimo: Shushanik Kurghinian (1876-1927) e Zabel Yesayan (1878-1943). A differenza dei loro colleghi maschi evocati dalla Seghers, le autrici armene appaiono quasi sconosciute al pubblico occidentale, tanto più che la loro opera venne osteggiata e precipitata in un forzato oblio. Alle loro voci si intersecano quelle della dattilografa-scrittrice (alter ego della stessa Avagyan?), e dell’amica Lara.
Una operazione metaletteraria, una narrazione polifonica che, come in un quartetto d’archi, svolge una meditazione su molteplici tematiche, fra le quali spiccano quelle della perdita, dell’individualità e della questione femminile. Due donne eccezionali, il cui timore era quello “di vivere una vita simile a quella di tutti”. Kurghinian è una ribelle, ostile a qualsiasi gerarchia sociale e al dominante patriarcato, il cui talento le permette di impossessarsi letteralmente del linguaggio. Per questo rimase incompresa, rifiutata e condannata all’oblio. Anche un’operazione apparentemente meritevole come l’edizione del 1947, limitata alle sue poesie più liriche, appare come una mistificazione, un tentativo di spegnere la carica rivoluzionaria insita nella sua opera. Yesayan visse un’esistenza erratica, che culminò nell’assassinio perpetrato dal regime stalinista. Anch’ella impugnava la penna per lottare contro l’ingiustizia, e per questo pagò il prezzo più alto.
Voci di inquisitori infestano la narrazione con il loro agghiacciante motto: “tutto ciò che non comprendiamo, lo condanniamo”. La peculiarità dell’esperienza femminile viene ridotta al silenzio. Non solo: si cerca di distruggere un’intera civiltà, una cultura, sostenendo che non sia mai esistita. Avagyan orchestra l’incontro fra le due scrittrici nelle misteriose prospettive di Erevan, in un tessuto urbano enigmatico come il tappeto a drago tipico del Caucaso. Una città collocata in un territorio dove “la gente parla dialetti antichi e incorrotti, in cui il succo della melagrana è più denso del sangue”.
Riflessioni sul linguaggio arricchiscono la narrazione: “il futuro appartiene a coloro che, oltre alla propria lingua madre, conoscono altre lingue e vivono in case di vetro”. L’atto del tradurre assume importanza capitale: “fare in modo che la traduzione superi l’originale, anziché rimanere inferiore”. Anche il lettore assume un ruolo attivo. L’uso di un linguaggio frammentato ci costringe a ragionare su ogni singolo dettaglio, analizzando i concetti in profondità. L’utopia di vivere ogni giorno in una città diversa addita un sogno; quello del mutamento continuo, del superamento di qualsiasi limite imposto dall’esterno. “Scrivere, per vivere. Per vivere, scrivere”. Solo attraverso la propria opera lo scrittore esiste. Scrivere è esigenza ineluttabile, sommo esorcismo della morte.