Shirley Jackson / Preludio alla catastrofe

Shirley Jackson, La strada oltre il muro, tr. di Silvia Pareschi, Adelphi, pp. 219, euro 19,00 stampa, euro 10,99 epub

Il romanzo appena pubblicato da Adelphi, The Road Through the Wall, costituisce l’esordio narrativo di Shirley Jackson, uscito nel 1948 e fortemente autobiografico: “Il primo libro è quello che devi scrivere per ritornare ai tuoi genitori – dichiarerà in seguito Shirley – una volta che te lo sei tolto dai piedi, allora soltanto puoi davvero cominciare a scrivere libri”. Saldare i conti in sospeso, in altre parole. E la giovane autrice ci riesce egregiamente.

La rappresentazione è spietata e claustrofobica. Tutto si svolge in un singolo quartiere, Pepper Street, di Cabrillo, California, evidente trasposizione di Forest View Avenue a Burlingame, dove Shirley era cresciuta: un qualsiasi sobborgo middle–class, dove tutti sanno tutto degli affari degli altri e giudicano sempre, in una velenosa combinazione di disprezzo e ipocrisia, chiunque non sia conforme ai canoni condivisi. Non ci sono protagonisti, il romanzo è corale. Manca una presenza osservante che rappresenti il punto di vista dell’autrice ed è impossibile identificarsi con alcuno dei personaggi, perché ugualmente corale è lo squallore che uniforma le generazioni: anziani e adulti, ragazzi e bambini. Non si salva nessuno: né gli spocchiosi inquilini dei palazzi più lussuosi e isolati, che sperano di abbandonare presto il sobborgo per altre zone residenziali ancora più esclusive e degne del loro status sociale in ascesa; né i più umili nuovi arrivati del quartiere, che occupano le aree più esposte alla contaminazione con l’esterno, ma già sclerotizzati nel passo avanti appena compiuto verso un’anelata integrazione nella comunità. Un piccolo mondo serrato in sé stesso, asfittico e gretto.

Siamo nel 1936 e viene spontaneo chiedersi cosa facesse e pensasse in quegli stessi giorni la vera Shirley. Soffriva molto probabilmente, come il personaggio del romanzo che fra tutti potrebbe evocarne di più la presenza reale: Harriet Merriam una quattordicenne malinconica, sovrappeso e poco attraente che scrive poesie ed è l’unica amica di Merilyn, un’altra emarginata – tenuta a distanza dai vicini con un pregiudizio feroce ma sempre espresso nei termini più educati – perché ebrea. Sua madre Josephine (la madre di Shirley si chiamava Geraldine), oltre a umiliarla costantemente mettendone in evidenza senza il minimo tatto l’inadeguatezza fisica, le vieta di frequentare la coetanea e le impone continuamente la sua regola di conformità: We have to do what is expected of us”, bisogna fare quello che gli altri si aspettano da noi. E cosa si aspettano gli altri? Che si ubbidisca. I figli ai genitori, le mogli ai mariti, i subalterni ai superiori. Questa è la regola e finché nessuno la mette in discussione – e nessuno si sogna di farlo – le cose procedono immutabili. Ma un equilibrio così precario e forzato si infrange facilmente. Bastano dei lavori pubblici imposti dal comune – che neanche i membri più altolocati dell’enclave hanno saputo fermare – a sconvolgere la topografia del luogo; l’abbattimento di un muro che protegge la proprietà e la espone alla statale prospicente, spalanca una frattura devastante: l’esterno entra di forza e rivela il marcio dell’interno.

Shirley si prende la sua vendetta, la giovane “strega”  già tira fuori gli artigli: per sciogliersi dal peso di tutto il conformismo e la meschinità della propria famiglia, l’ironia e il sarcasmo che hanno condotto il corso di tutto il libro non sono sufficienti. Non basta l’umorismo caustico dell’episodio in cui le ragazze del vicinato volendo acquistare per posta riproduzioni artistiche di alta classe per decorare le loro stanze, ordinano per sbaglio un set di foto pornografiche; non basta la denuncia del razzismo e del classismo radicato indifferentemente in tutti i membri del piccolo consorzio, come evidenzia l’episodio in cui le due ragazze più intraprendenti accettano sì, pur diffidenti, l’invito a prendere un tè dal corretto signore cinese che hanno conosciuto per strada, ma fuggono via di corsa quando il cinese rivela di essere non il proprietario ma il domestico dell’appartamento in cui le ha ricevute.

Tutto questo abrasivo rancore è ancora poca cosa. La crudeltà improvvisa e rovinosa che esplode a tradimento nelle ultime pagine del romanzo ribaltandone il tono, ci prende di sorpresa e ci lascia sconvolti, almeno quanto il sacrificio rituale descritto nel contemporaneo La lotteria, avrebbe presto turbato, offeso e scandalizzato i benpensanti lettori del “New Yorker”, molti dei quali potenziali inquilini di Pepper Street. Non basta l’irrisione, lo scherno, non basta l’aguzzo eppure velato referto degli amorazzi adulteri dei vari condomini, della loro stupidità, dell’affettazione, della vanità e dell’impostura. Ben altro, ben peggio. L’omicidio di una bambina, il suicidio di un ragazzino – l’ennesimo reietto – che accusato del delitto si impicca, risolvendo i problemi di tutti, della polizia per prima. E Harriet intanto, vittima ma non innocente, ha forse provato a infrangere, ad ogni costo, la cortina di vuoto ipocrita, di scialba banalità, che regge sovrana l’equilibrio barcollante ma inespugnabile della comunità di cui è prigioniera: le vite futili dei borghesucci di Pepper Street saranno finalmente terrificate e sconvolte… almeno per un paio di settimane.

Così Shirley ha iniziato la sua tormentata carriera, ignorando un agente letterario che la scoraggiava dall’usare la narrativa per rivelare ai lettori e al suo prossimo, sgradevoli verità su loro stessi e tollerando vendite desolanti: neanche 2000 copie sulle 3500 progettate, minimo garantito per poter trattenere l’anticipo già erogato dalla casa editrice, che invece, constatato lo scarso successo dell’opera prima, posticiperà di un anno l’uscita della raccolta di racconti già pronta (The Lottery and Other Stories, 1949) . Ma Shirley non avrebbe cambiato rotta affilando ancor di più le armi. Aveva ormai saldato i conti con chi di dovere, parenti e serpenti, e si era tolta dai piedi il primo libro: ora poteva cominciare a scrivere davvero.

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