The Sundial, scritto nel 1958, potrebbe essere il romanzo più cupo di Shirley Jackson. Le premesse per renderlo tale, in teoria, ci sono tutte: si inizia con un funerale e si termina con un altro (per quanto sui generis) e l’intera trama ruota intorno a un’apocalisse annunciata (e, a quel che sembra, probabilmente realizzata). In realtà invece è in assoluto il testo più comico, sarcastico e divertente che la grande scrittrice statunitense abbia mai composto: fra i cinque che ci ha lasciato, per sua diretta ammissione, il suo preferito.
Come sempre l’atmosfera è claustrofobica. L’ennesima enorme e labirintica villa la cui tortuosa topografia ossessiona costantemente tutte le tre ultime opere jacksoniane: questa, The Haunting of Hill House (L’incubo di Hill House, Adelphi 2004) – scritta l’anno seguente – e l’ultimo capolavoro del 1962, We Have Always Lived in the Castle (Abbiamo sempre vissuto nel castello, Adelphi 2009). L’ennesima galleria di personaggi paradossali, grotteschi, patetici, ritratti, come in una sfilata di caricature al vetriolo, con spietata e insieme compassionevole immedesimazione. L’abituale alternanza di toni tragici e leggeri, spettrali e giocosi, elegiaci e sardonici, che rendono inimitabile la prosa di questa donna così meravigliosamente fragile e sostanziale.
Si parte in medias res con la famiglia Halloran – idealtipo della upper upper class statunitense, l’aristocrazia del denaro che può, per quanto la sua ascesa sia recente e la sua composizione sociale spuria, ostentare atteggiamenti quasi feudali nei confronti dei villagers e dei clientes del circondario – reduce da un recentissimo lutto: il capofamiglia Lionel è ruzzolato giù dalle scale della magione di famiglia rompendosi il collo, spinto – così si mormora – dalla matrigna Orianna. I sopravvissuti componenti del clan sono il vecchio Richard, marito di Orianna e padre di Lionel, in sedia a rotelle e ormai quasi completamente rincoglionito; Marijane, vedova di Lionel e madre della pestifera orfanella decenne Fancy; la zia Fanny, sorella di Richard; Miss Ogilvie, governante di Fancy; Essex, giovane di bella presenza assunto ufficialmente per catalogare la biblioteca (e ufficiosamente gigolò della matura Orianna Halloran). Più tardi si uniranno a loro Mrs. Willow, “vecchia amica di Orianna” prima del fortunato matrimonio con Halloran, insieme alle sue due figlie Julia e Arabella, in cerca di marito; la diciassettenne Gloria, figlia di una cugina di Orianna, che chiede ospitalità durante l’assenza del padre; infine Harry, un giovane sconosciuto, anche lui di bella presenza, incontrato per caso al villaggio, accolto in casa e ribattezzato da zia Fanny Capitano Scarabombardon.
Su tutti, personaggio tra gli altri, lo scenario: tutto ciò che si erge intorno al baricentro asimmetrico della meridiana, luogo geometrico e orizzonte degli eventi delimitato da cancelli serrati e minacciose mura di recinzione, dove campeggia emblematico il motto “WHAT IS THIS WORLD?”, citazione dal Racconto del cavaliere dai Canterbury Tales di Chaucer. Gli spazi “matematicamente perfetti” che scandiscono interni ed esterni di Villa Halloran sono la prefigurazione poco meno sinistra della futura, infame, Hill House. Entrambe le magioni costruite da mariti come dono per mogli defunte appena prima o poco dopo averle viste per la prima volta; entrambe fonti di conflitto fra fazioni familiari che se ne contendono la proprietà; entrambe dai pavimenti e dai muri “leggermente decentrati”. A differenza di quanto Hill House abbia fama di essere però, Casa Halloran non risulta esplicitamente “infestata”, pur prestandosi ad adeguato scenario di almeno due apparizioni “soprannaturali”. Come ad Amleto infatti, il fantasma del padre defunto appare ripetutamente a zia Fanny profetizzando un’imminente fine del mondo che risparmierà unicamente la famiglia Halloran e gli ospiti accolti nell’Arca della loro dimora. Presagio che conferma la veridicità delle visioni rivelate da zia Fanny sarà la fugace comparsa di un serpente in salotto, di fronte all’incredulo uditorio: con limitate riserve l’annuncio da quel momento verrà da tutti preso sul serio.
A metà strada fra Henry James ed Evelyn Waugh, se non addirittura P.G. Wodehouse, tra gothic apocalittico e screwball comedy, la narrazione procede con gli strampalati tentativi di usare Gloria come medium veggente, facendole scrutare il futuro in uno specchio spalmato di olio dove la ragazza proietta l’immagine edenica e idealizzata di un mondo che lei stessa vagheggia pur senza credervi. Le giovani donne infatti sono le uniche a mantenere un minimo di lucidità per opporsi al delirio collettivo ma comunque insufficiente per resistere alle fallaci lusinghe dell’amore: i tentativi di Gloria di evadere dalla villa insieme ad Essex, abbandonando tutti gli altri alla loro follia, saranno frustrati dal tradimento del bel cicisbeo che rivela tutto ad Orianna; la stessa cosa farà Henry, il Capitano, nei riguardi di Julia, già pronta a fuggire con lui, lasciandosi corrompere dalla ricca manipolatrice: i bellimbusti del sesso “forte” per Shirley, valgono al massimo come animali da compagnia. Anche Fancy, la più giovane del gruppo, ha parecchio da ridire su un mondo distrutto prima che lei abbia avuto il tempo di viverci: dissente e gioca ossessivamente con la sua casa delle bambole (copia perfetta di Casa Halloran) disponendo e usando i suoi giocattoli come Orianna manipola e controlla i suoi ospiti e come zia Fanny si rifugia nella sua personale casa delle bambole segreta: la minuziosa ricostruzione, in due stanze chiuse a chiave, del modesto appartamento della sua infanzia, prima dell’improvviso arricchimento della famiglia.
Ancor più strambi ed esilaranti gli abboccamenti fra il ristretto gruppo di “eletti” e la setta dei Veri Credenti, dei cultisti che aspettano l’imminente discesa di astronauti provenienti da Saturno: una questione di dettagli metterà subito in crisi le relazioni fra due diverse versioni dell’Apocalisse. Ugualmente si contrasteranno due prospezioni conflittuali del “mondo futuro” promesso dalla profezia: la visione efficientista, normativa, autoritaria e dispotica – aggiungeremmo “monoteista” – di Orianna, che già si fa incoronare in anticipo regina, con tanto di corona vera che non si toglierà più dalla testa fino al realizzarsi dell’evento, e quella spontaneista, egualitaria e paganeggiante dei componenti più giovani: certo è che sebbene l’una escluda categoricamente l’altra (e sapremo quale nelle ultime pagine), in entrambe le ipotesi i due unici membri maschi della comunità dovranno lavorare sodo per ripopolare la terra (le signore non se li sono scelti belli a caso).
La sera prima della fine del mondo – secondo l’annuncio rivelato da zia Fanny e precisato dalle visioni di Gloria – Orianna organizza una grande festa nei giardini della villa (gli interni sono proibiti per non mostrare a estranei l’ammasso di provviste, gran parte delle quali inutili, raccolto nei mesi precedenti e accatastato nella grande biblioteca, sugli scaffali svuotati dai libri bruciati sul barbecue) e dedicata agli abitanti del villaggio, i sudditi, abbandonati alle furie del diluvio universale ma gratificati almeno di un’ultima cena e dell’accesso, per un’unica volta, alla proprietà dei signori. Durante il party – buffonesco ed altamente alcolico – Orianna si mostrerà in pubblico indossando la corona che simbolizza la sua posizione di supremazia nel mondo a venire e che passerà, alla sua morte, alla nipotina Fancy. Gli invitati non capiscono niente ma si divertono lo stesso. Il giorno dopo, licenziati i domestici e sprangate porte e finestre, gli Halloran si barricano in casa in attesa della grande distruzione che avrà il suo culmine durante la notte. Il cielo si oscura, la tempesta si scatena, il vento imperversa, le luci elettriche saltano (ma non mancano le candele): tutto confermerebbe l’avverarsi della profezia. Con una sorpresa finale, che tuttavia non svela l’ultimo mistero, la storia si interrompe a questo punto, nell’attesa e nella speranza – forse immotivata, forse immeritata, probabilmente vana – degli aspiranti sopravvissuti, mentre la notte deve ancora passare: l’ultima riga del testo sarà un’ennesima lusinga di Essex a Gloria: “La prima cosa che farò sarà intrecciare una corona di fiori per te”.
Comico, enigmatico, inquietante, il romanzo – come fa sempre Shirley Jackson – cela un malessere profondo, un’amarezza indefinibile eppure inequivocabile, spleen dal sorriso sulle labbra:
“Orianna,” disse Essex “credi che saremo felici laggiù?”
“No” rispose Mrs. Halloran “Ma d’altronde non siamo felici neanche qui”.