Dopo tanti giorni di ottundimento scrivere è un modo per dare voce alle correnti che per giorni ci hanno spazzato la coscienza, senza direzione né senso.
Siamo stati sommersi da pensieri cupi e ancor prima stati d’animo primitivi che fiaccano il corpo per proteggere l’anima e poi, dal corpo, riprendono forza e salgono a riscattare la coscienza. Ho sentito nelle gambe l’angoscia di sapere Kostia in partenza per l’Ucraina, quando ancora si parlava di incontri negoziali, rispondendo, già allora controcorrente, all’urgente chiamata della mamma, ricoverata con problemi cardiaci per fortuna senza conseguenze invalidanti.
Lui andava, quando già le ambasciate di mezza Europa richiamavano diplomatici e cittadini a rientrare, per vegliare sulla madre, evitarle cure incomplete e acquisire tutte le informazioni perché si rimettesse al meglio. Nel microcosmo della nostra famiglia allargata la sua missione ebbe un successo immediato, essere lì, averlo lì; la madre uscì presto dall’ospedale e in condizioni per poter viaggiare, dovevano solo rientrare.
Ma i giorni erano quelli che erano, grigi e carichi di piombo sospeso, e ogni passo appariva già drammaticamente legato a un addio più che a un ciao. E allora, prima di andare è meglio avere preso quello che non vogliamo lasciare, Clara stessa lo aveva consigliato a Kostia: “porta uno zaino vuoto, che ci saranno cose che non vuoi non poter vedere più”.
Chi di noi non l’ha pensato, magari solo partendo in aereo, quando ti dicono con voce giuliva: “In caso di atterraggio d’emergenza non prendete i vostri oggetti personali”; “e che no?! E che mo’ lascio la foto di nonna che so’ tant’anni che me la porto con me?” Può essere una foto, un testo, un documento, una penna, il quadro, le medicine, un peluche, dipende da chi si è e con chi si sta. Ma io quel gesto, quello sguardo indietro, quel tentennamento infantile, sentimentale, esiziale, me lo sono sentito addosso per giorni, e non era ancora successo nulla, ripetendomi, senza dirglielo:” vai lascia, parti, fregatene della robba, la robba non serve ti devi portare a casa la pelle!” (cristo!). Per giorni, sottopelle, con accenni scapigliati qui e la, ho continuato a rimandare indietro questo pensiero, perché siamo una famiglia che pensa positivo e che l’idea che qualcuno si mette a fare la guerra proprio non l’accetta di suo.
Poi, le cose sono precipitate, l’annuncio “partiamo” ha anticipato di un nulla la chiusura dello spazio aereo, l’inizio delle operazioni dirette a entrare in Ucraina, l’annuncio di “esplosioni” nelle varie città più importanti, nella capitale, a Karkiv, che forse è lontana dal Donbass, ma è a un passo dal confine russo e comunque nell’est dell’Ucraina e nel cuore delle nostre priorità.
L’emergenza è una dimensione frantumata. In ogni momento arrivano informazioni e notizie che vogliono essere nutrite o portare nutrimento, ma non sono coordinate temporalmente arrivano in contemporanea domande, risposte, conferme, dubbi, che si rincorrono o precedono in onde di suono incoerente, ripetitivo, fermentante, come un’eco a velocità diverse che ti ripropone risposte a domande non ancora poste e al contrario ti informa ripetutamente su cose che sei stato addirittura tu a mettere in giro.
Mantenere la calma, cercare di organizzare i fatti, imparare a rispondere con gentilezza e fermamente a chi chiede per rassicurarsi, a chi per completezza di analisi immagina sei possibili scenari quando tu ne vuoi realizzare uno solo e gli altri non hai le forze per prenderli in considerazione. E poi la tua di calma, in qualche modo provi a gestirla, ma quella a cui tieni di più, quella che non deve essere incrinata, che vuoi proteggere e salvaguardare, beh, per quella sei disposto a mordere o quantomeno ad abbaiare. E allora ti trovi a zittire amici dedicati solo perché si sporgono un po’ troppo nel comunicarti la loro pena e li avverti che non si azzardino a passare ansia lungo la linea. Che tua figlia sta già facendo un miracolo, che non vuoi che si trovi a rispondere a chi le prospetta, magari sensatamente, gli scenari più difficili.
E così inizia un gioco di specchi, le notizie arrivano a pacchi da tutti quelli che si nutrono di media, e dicono le cose più oscene, drammatiche, impensabili. Parlano di rifugi, di bombardamenti (hai un flash di te che alla parola “esplosioni” avevi sostenuto che magari era qualcuno che seminava il panico con le “palle di Maradona”), di coprifuoco. Parlano di legge marziale: gli uomini ucraini tra i 18 e i 60 anni non possono lasciare il paese e devono aiutare l’esercito; l’insidia più forte di tutte. E non arrivano, o striminzite, da chi più conta: “abbiamo viveri, il pieno alla macchina, siamo pronti a partire”. Ma per dove? Con che possibilità di successo?
Come un falò da campo, che illumina un punto e getta ombre giganti tutto intorno, ogni notizia crea intorno a sé un’ombra accecante, un vuoto di comunicazione, un buio fitto, profondo e denso che sgomenta e non lascia respirare. Tutto troppo simile alla malattia per non far scattare la pena. Mi aggiro, nel sole di Roma, con questo buio dentro, con questa fitta al petto, che mi fiacca i polpacci, mi curva la schiena, mi ottunde e dispera.
Ma io non sono così, non so come fare, disperarmi è un’acuzie, dolorosa e cattiva, ma non dura, non vince. Torna il fiato, l’attesa, la speranza, il dolore. Quello sì, me lo tengo, bene stretto e lo curo, non ha senso scacciarlo, lui è il segnale mica la causa.
E allora si tesse una rete di cura, le notizie filtrate, ben redatte, postate con un guizzo, una foto, un rimando di luce.
Sono qui, si sono mossi, dopo un giorno e non verso Kiev, che intanto è bombardata, concretamente, insensatamente, micidialmente e non è buona, né come meta né come strade, meglio smarcarsi dalla linea diretta, passarla a sud, ma non troppo in basso, che c’è la Transnistria, con i suoi super nazi.
E capisci che non ti basta guardare i posti su Maps, che ti serve di guardare una mappa come si deve e cerchi il tuo atlante, scorrendo le pagine per trovare il vicino Oriente, e scopri che è dei tempi delle medie, che la Jugoslavia è ancora tutta intera e l’Ucraina confina a nord con la Russia Bianca! Che ignoranza! In tutti questi anni non hai sentito il bisogno di aggiornare la mappa, figuriamoci di conoscere veramente il territorio. E infatti non sai bene orientarti tra le varie macroanalisi, gli epiteti che gli uni appioppano agli altri, i Nazisti chi sono? Putin lo usa per gli Ucraini, l’occidente, hai creduto, per i filorussi, ma ti trovi con le idee confuse e allora viene fuori più forte la consapevolezza che forse neanche gli altri ne sappiano poi così tanto e che giocare al chi l’ha fatto per primo rischi di distrarsi da un imperativo più estremo: Basta guerra, armi, spoliazione e sopraffazione, basta Masters of war, che come sia sia stanno sempre “hide in your mansions” e quando il sangue dei giovani scorre nel fango si girano dall’altra parte a contare i profitti.
Mi spiace per chi l’ha pensato, ma non è buonismo, né retorica, magari, certamente risveglio improvviso e tardivo, occasione di coinvolgimento per questioni emotive e personali, ma se ora la mente è sveglia qualcosa si è guadagnato. E l’urgenza è di non dover spendere così tanto per mantenere accesa la sensibilità.
Le notizie da una zona in guerra sono aleatorie, dipendono da troppi fattori, le persone sono in viaggio, non hanno campo, i telefoni si scaricano, stanno affrontando momenti di tensione cercando di comprendere cosa sia meglio fare in un dedalo di possibilità in cui non ci sono più segnali orientativi. Succede anche d’estate in Puglia, ma quello è perché sono strade così locali che i locali non considerano necessario dare indicazioni. Ma qui chi è “locale” con la guerra? Chi può predire da dove verrà un bombardamento o quale binario sarà tagliato o chi approfitterà del tuo stato di bisogno per derubarti o taglieggiarti?
E Kostia, arrivato a Poltava rimane solo con la mamma e la nipote, una situazione epica, in cui le decisioni prese sono per gli avi e i discendenti, un Enea Ucraino/Francese esule in patria.
I fratelli con cui sono arrivati in macchina tornano a Karkiv, che è sotto attacco, ma dove hanno case e famiglie. Non possono portarle via, perché la legge marziale impedisce loro di lasciare l’Ucraina, una decisione Patriottica che ritorna a costringere i maschi al destino di guerrieri, e che richiama la lotta degli Obiettori di Coscienza, di chi ha lottato per avere riconosciuto il diritto di difendere la Pace, l’umanità e gli esseri umani, prima che i confini che li separano. Anche Kostia ci deve fare i conti, in lui l’appartenenza all’Ucraina è forte e anche se ormai è all’estero da 11 anni è un e fiero esponente e attivo rappresentante della comunità ucraina a Lione e già prima di partire se ne era fatto portavoce per rappresentarne le ragioni e i timori. Sa bene che può fare molto di più per la sua causa da fuori che in patria, ma lasciare i suoi luoghi dilaniati lo fiacca e umilia, un peso in più da portare con sé.
E salgono sul treno verso Lviv, la frontiera con la Polonia, passando pericolosamente vicino a Kiev, 776 chilometri di tragitto che compiranno in 18 ore in una condizione di crescente tensione, con il treno che spegne le luci, i fari, marcia quasi a tentoni sui binari e chiede ai passeggeri di tenere spenti i cellulari, per non lanciare segnali Gps che potrebbero renderli un bersaglio facile. Arrivano a Lviv a mattino inoltrato con sé hanno una borsa ciascuno, un giubbetto che appare primaverile, alcune provviste, prese a caso, decise dal caso: 4 scatole di latte condensato, delle noci, 6 panetti di burro, due polli surgelati!
Fortunatamente a Lviv li vengono a prendere degli amici, da un villaggio vicino. Non è immediato capire come passare la frontiera, ci sono molte incognite, la fila da qui verso Przemysl è lunghissima, giornate di attesa in una situazione caotica, con il rischio di un peggioramento e il timore di essere divisi. Perché Kostia, benché abbia documenti francesi è un maschio e quello si vede prima e l’accesso ai pullman è concesso solo a donne, bambini e anziani. Si sta a casa di amici quindi, per una pausa e una ricognizione delle possibilità. Fa piacere, da fuggiaschi, arrivare con qualcosa per chi ci ospita, e così i polli vengono consumati e si recupera il sonno non goduto in treno, al mattino ci si dirige verso un altro passaggio di frontiera, meno servito da mezzi pubblici, dove si spera ci sia meno attesa.
E gli amici supportano, distraggono, preoccupano. A quanti sto ripetendo che Kostia ha la doppia cittadinanza? Che può mostrare un documento Francese, che non sta scappando da casa, ma tornandoci!? Ma certo è meglio fare qualcosa, attivarsi è una mano santa, e allora si scandagliano amici e parenti non più per l’affetto che gli nutriamo, ma per il mestiere che fanno, le esperienze che hanno, le conoscenze che ci possono mettere a disposizione. E ne viene fuori un mix turbolento, perché nessuno è il suo mestiere, ma sempre la persona che lo fa e quindi le situazioni le interpreta e legge secondo quello che gli muovono dentro e, se si agita, tende a evidenziarti tutto ciò che va superato, costruendoti davanti un muro di sfighe che la metà basta, oppure se ne smarca con un guizzo e tira fuori l’indicazione che ti illumina la strada. Nessuno cerchi di riconoscersi in una frase o l’altra e comunque grazie a tutte e tutti, perché sapere da cosa ci si deve difendere toglie serenità, ma accende consapevolezza e aggiunge determinazione. E così partono telefonate a destra e a manca, si puliscono i messaggi, e finalmente si mandano consigli ai fuggitivi, sempre solo dopo aver trovato qualche possibile antidoto al problema che stanno affrontando.
Clara intanto è diventata una testimone di questa situazione, interviene alla radio, in Italia e in Francia è intervistata dai media ucraini e parla per la comunità, per l’intercultura, per la difesa del popolo ucraino e del ritiro delle truppe e il cessate il fuoco. E mette a disposizione quello che ha, creatività, tempo, mezzi, pur di sapersi attiva mentre l’attesa si prolunga e la tensione si fa tagliente.
E mentre loro scelgono il luogo da cui sperano di passare, noi si attiva il sistema di emergenza che intanto la Francia ha messo in piedi e si fa presente che da lì sta cercando di passare Kostia, cittadino francese, perché non ci siano fraintendimenti e non lo si fermi come disertore. E a Rava-Ruska arrivano, con una fila di macchine stimata in tre giorni di attesa, ma ci sono dei pullman e loro ci salgono, insieme, perché il panico di mamma e nipote è tale alla prospettiva di separarsi da Kostia che supera il divieto e lo fa imbarcare. Ma è solo per stare insieme, ché il pullman, benché abbia una corsia preferenziale si ferma presto dietro la colonna di mezzi che lo precedono.
E allora si chiede il permesso di scendere e proseguire a piedi e poi il racconto si fa oscuro, confuso, si sale su un altro pullman, si fanno altri pezzi di strada, finché di nuovo si scende per arrivare a vedere la frontiera, ma con mille persone davanti e la neve che scende e l’attesa, che dura, mentre cala la notte.
Sono stati otto ore all’addiaccio, in questa prima fila conquistata al costo di affrontare la strada senza mezzi o ripari, esporsi al freddo e premere al confine. Mille persone prese su a blocchi da un ultimo pullman che ti porta alla dogana, che sbriga incessantemente le pratiche di passaggio, sempre più svelte, ma anche ingolfate, da calibrare a quanto, al di là, si riesce a smaltire, ad accogliere a reindirizzare. E finalmente, si passa.
È una gioia che schianta e commuove “È uscito! È uscito! È uscito!” Clara grida al telefono senza se e senza ma “È uscito! È uscito, sono fuori è passato! È fuori, è uscito, non l’hanno fermato!”
Non è ancora in Polonia, ma ha passato la frontiera Ucraina, loro sono fuori, il focus di Clara pian piano si allarga; ha tenuto 5 giorni il destino del suo amore sapendo che non era solo, ma tenendo lui stretto al cuore, confidando che riavere lui avrebbe significato riavere tutti.
E adesso, immediatamente, nasce il senso di quanto fossero comunque dei privilegiati che, appunto, tornavano a casa, lasciando tutto sì, ma avendo una meta, una propria storia già costruita, qualcosa che li aspetta e soprattutto qualcuno da riabbracciare.
Ed infatti da qui il percorso si addolcisce, vengono affidati a una coppia di volontari, polacco lui messicana lei, che li sono venuti a prendere da Lublin, a un’ora e mezza di macchina da Hrebenne, il corrispondente Polacco di Rava-Ruska e che se li portano indietro, per ospitarli a casa loro. E di più, la ditta americana per cui lavora Kostia e che l’ha seguito in tutta l’epopea, appena saputo del passaggio gli ha prenotato un albergo dove riposarsi prima del rientro e trovato un volo da Varsavia a Lione.
E allora adesso è un’attesa più gioiosa quella che ci prende tutti e lo sguardo, finora così focalizzato, si allarga a chi sta ancora aspettando e a chi non è neanche partito ed è rimasto in città da cui arrivano notizie sempre più disperanti per la volontà di sopraffazione che recano e disperatamente coinvolgenti per la volontà di resistenza che testimoniano.
E non c’è solo la resistenza di chi è là, ma è forte e potente quella di chi li aspetta, li vuole al sicuro, li sa in pericolo, incerti, in città non più funzionanti, dove inizia a mancare tutto, e allora tutto si raccoglie, si impacchetta, si invia, con la solidarietà e la partecipazione di ciascuno, che arriva con il suo bustone, che manda la roba e anche lo zaino per portarla, che affianca al pensiero per i bimbi il cibo, il vestito, il giocattolo, perché la guerra non distrugge solo le cose, ma ti porta via il quotidiano, il ritmo, la gioia.
E quello che era storia personale diventa corpuscolo di un evento drammatico, totale, inaccettabile, globale. E la politica internazionale, la contrapposizione dei blocchi, la logica della minaccia e delle ritorsioni, il percorso incessante di chi continua a preparare guerra dicendo di volere la Pace.
“Si vis pacem, para pacem” recita il cartello di una manifestante al grande corteo nazionale di ieri a Roma, che cerca unità in mezzo ai distinguo dell’intransigenza e della vanità. Perché l’Utopia, ci ricorda Landini citando Gino Strada, non è l’impossibile, ma il faro organizzatore delle nostre scelte sempre parziali. E se chiedere di cessare il fuoco è rivolto a chi invade e a chi resiste, non costruire le condizioni per la guerra parla a noi tutti, alle scelte di ogni giorno, a quello che accettiamo come confort, senza occuparci di chi ne paga il prezzo, ai beni, salute, protezione che diamo per scontati al costo di non guardare il modo in cui sono ottenuti e di non chiederci perché a noi spettino e ad altri siano negati.
Giovedì scorso sono partito per Lione, giusto in tempo per abbracciare Clara, sentirne lo stato d’animo, scrollarci da dosso l’angoscia vissuta e andare con lei ad accogliere Kostia, Valentina e Dashia, scombussolate loro stanco morto lui, ma radiosi di sollievo e riunione a lungo attesa. E ne torno con un augurio e un impegno: permettere a chiunque stia facendo questo viaggio, non solo dall’Ucraina alla Francia, ma dalla guerra alla salvezza, dalla fame al lavoro, dalla schiavitù al diritto, di poterlo fare con successo e in dignità.
Questi sono alcuni link a interviste, articoli e interventi radio fatti da Clara e Kostia in questi giorni:
- Educare alla pace è sempre possibile? 02/03/2022;
- Expat del 26 febbraio e del 5 marzo, perché tra la prima e la seconda si scatena la guerra.
- Expat 5 marzo
- La tv Lionese che racconta il rientro di Kostia e l’azione della comunità Ucraina locale
Il testo è già uscito su Cantosommesso. Ringraziamo l’autore per averci concesso di ripubblicarlo.