6 Dicembre 2017
Piero Schiavo Campo, Il sigillo del serpente piumato, Urania n. 1648, Mondadori, pp. 250, euro 6,50 stampa, euro 3,99 ebook
Il vincitore dell’edizione 2017 del Premio Urania, Pietro Schiavo Campo, si era già imposto quattro anni addietro con L’uomo a un grado Kelvin, un romanzo giallo in cui l’apporto fantascientifico era solo pretesto per dare la forma del genere. Il sigillo del serpente piumato sembra invece esser scritto da un altro autore: sorta di “centone” di romanzi, epitome fantascientifica in cui accade di tutto, nella sua veloce stesura ricorda certi lavori di Jack Williamson, nei quali al lettore pare d’aver dinnanzi una compressione narrativa di temi ed eventi.
In questo caso, nel giro di mezzo romanzo, il protagonista Johnny Cowson lascia la Terra per recarsi sulla colonia di Parvati, onde raggiungere Jane Ross, una cantante che ha visto alla tv e di cui si è innamorato; deve combattere e sconfiggere un gigante multicefalico, fra i tanti che vivono a contatto con i coloni terrestri, rapire la ragazza dalle grinfie di un secondo (scoprendo poi che in realtà la fanciulla è regolarmente assunta), vivere un po’ con lei, farsi lasciare, partire per cercarla, viaggiare fino al pianeta Apollo che è una specie di pianeta-penitenziario, diventare un addestratore di “pitecantropi” da usare come guardie, sventare i piani del dittatore di turno, essere eletto governatore di Apollo, lasciare il pianeta… e via così per altre pagine, fino alle rivelazioni finali.
Il romanzo insomma è affetto da una sorta di horror vacui per cui ogni pagina deve contener qualcosa a tutti i costi; ma non alla maniera teorizzata da Van Vogt, quanto nel senso di eventi che sfuggono al controllo dell’autore e vengono sciorinati l’uno dopo l’altro, in mondi abbozzati di cartapesta e con personaggi improbabili, con la comparsa, infine, di una serie di divagazioni fra il metafisico e il new age che sarebbe stato meglio evitare. Il sigillo del serpente piumato si configura quindi come qualcosa che avrebbe voluto essere nel solco della tradizione evocata nella quarta di copertina e nella scheda di Giuseppe Lippi, quella di Sheckley e Vance e Farmer, ma che invece ricorda le maldestre prove degli scrittori alle prime armi, con nomi che vorrebbero esser parlanti ma è meglio che tacciano, non riuscite commistioni fra sotto-generi, inserti digressivi o filosofici che paiono posti come riempitivi.
La domanda da porsi, a questo punto, al di là di quella canonica (“come è possibile che un romanzo di tal genere abbia potuto vincere?” Con relativo commento: “se questo è il più bello, figuriamoci gli altri”), suona press’a poco così: “come è possibile che un autore con un dignitoso esordio alle spalle abbia potuto incappare in tal errore?” E qui ci soccorre un concetto che potremmo chiamare “seriazione”, intendendo così lo svilupparsi di alcuni topos narrativi; non all’interno della scrittura di un autore (in questo senso si tratterebbe di “poetica”), ma del genere medesimo svolto in chiave italiana.
Se prendiamo infatti a parametro gli autori italiani pubblicati su Urania, che ne rappresenta, nel bene e nel male, la “vera” forma (la restante editoria non è indicativa, per tutta una serie di motivi troppo lunghi da elencare) e scorriamo all’indietro i vincitori e i finalisti del Premio, nonché quelli surrettiziamente pubblicati al di fuori del medesimo, possiamo evidenziare la “seriazione” attraverso alcuni assi portanti, grossi nuclei tematici: la città multirazziale e fatiscente, il regime più o meno dittatoriale di destra, il detective mutuato dall’hard-boiled, il viaggio nel tempo e le sue ir-risolvibili contraddizioni (complete di aggiustamento e amnesia finale), l’ucronia che pare una scatola di montaggio, le varie declinazioni del cyberpunk con dose anche massicce di nipponicità, computer simulazioni informatica spazi virtuali, la filosofia dickiana a buon mercato. (Fra i Grandi Assenti vale la pena di ricordare almeno lo spazio, l’utopia, gli altri mondi, la catastrofe, il primo contatto e l’invasione).
Quando l’autore nostrale esce da questi nuclei, sembra non essere più in grado di scrivere. Ci sono, ovviamente, le eccezioni ma la base è nella seriazione. Il perché va cercato probabilmente nel progressivo rarefarsi dell’immaginario di genere, che strutturatosi attraverso tradizioni editoriali, influenze di curatori e critici, letture “guidate”, consigli non richiesti, influssi cinematografici costanti, finisce con l’articolarsi in forme di seriazione, dal momento che quello è il suo mondo riconosciuto e cristallizzato. Così l’autore, sebbene abbia magari una preparazione culturale aspecifica sulla letteratura (ma di questo ne dubitiamo) e una specifica sul genere, prova difficoltà a scrivere qualcosa che vada oltre i limiti imposti di quella che lui crede (immagina, ritiene) sia la fantascienza, o almeno l’aspettativa che la giuria e i lettori hanno su di essa. Fino a quando permane nella seriazione, lo scrittore si muove a proprio agio (ma non sempre con buoni risultati); quando ne esce, mancando i modelli tradizionali che via via si sono andati affievolendo (nell’immaginario collettivo e in quello personale), si ritrova a regredire nelle forme di un esordiente qualunque. E sbaglia romanzo.
Sarebbe interessante prendere in esame i diversi romanzi vincitori e partecipanti al Premio Urania e considerare fino a che punto essi siano debitori non già della poetica dell’autore, quanto del distruttivo impasto culturale di cui sopra. In attesa che qualcuno si proponga, con una prima ricognizione scopriremmo la presenza, pressoché costante della città multirazziale e decadente, del detective più o meno jellato, della sua indagine… il tutto appreso per via diretta non da Chandler e Hammett, ma dal Blade Runner di Ridley Scott e dal mondo cyberpunk.