Sintetico e di piccole dimensioni Tre lezioni sulla storia di Sergio Fontegher Bologna è una miniera di riflessioni sul tema dei cambiamenti del fare storia oggi, comparati con la ricerca sulla classe operaia che si sviluppò dagli anni ‘60 sino agli anni ‘90 dell’altro secolo, soprattutto sulla rivista “Primo maggio” di cui Bologna fu direttore dal 1973 al 1981, per poi passare l’incarico a Cesare Bermani e Bruno Cartosio che la diressero sino al 1989. La rivista era edita da Primo Moroni, personaggio indimenticabile della storica libreria Calusca. Si tratta di tre lezioni che Bologna fece alla Casa della cultura di Milano nel 2022, in cui affrontò il tema “Tra professione e vocazione: modi di fare storia”. Il volume si avvale di una bella presentazione di Vittorio Morfino, che dell’iniziativa fu organizzatore.
Sergio Bologna è studioso di storia, economia, sociologia, figura di intellettuale con competenze multidisciplinari: redattore delle più importanti riviste di critica culturale e politica dagli anni ‘60, come “Quaderni rossi”, “Classe Operaia” “Quaderni piacentini” “Potere operaio”, Bologna diresse “Altreragioni” e una collana editoriale che tanti ricordano, i “Materiali marxisti” di Feltrinelli, dove venivano descritte le vicende del movimento operaio italiano, la storia degli schiavi americani, e il movimento degli afroamericani, le lotte operaie negli Stati Uniti, il movimento operaio tedesco.
Bologna riflette da anni sulle trasformazioni del capitalismo e sulle nuove figure dei lavoratori, un tempo disciplinati attraverso l’uso delle macchine, oggi dalla precarietà e della “messa a lavoro” in ogni momento della giornata, ieri legati all’industria, oggi alla logistica, ai settori della cultura e dell’informatica, un tempo lavoratori dipendenti, oggi autonomi di seconda e terza generazione.
Nella prima lezione Bologna ripercorre la storia dell’operaismo, a partire dalla rivista ”Quaderni Rossi” e dalle discussioni sul “Lavoro e le macchine” di Raniero Panzieri in cui si spiegava l’utilizzo capitalistico della tecnologia, il modo più utile per controllare e sfruttare il lavoro. Il gruppo redazionale elaborò un concetto fondamentale: l’idea che la “coscienza di classe” del lavoratore non fosse l’esito di un intervento esterno del partito e del sindacato, ma provenisse dall’elaborazione autonoma dei lavoratori che ragionavano insieme sulla loro condizione, creando un’intelligenza collettiva che pensava a nuove e creative forme di lotta in fabbrica. Esempio di questa pratica fu l’assemblea degli operai-studenti del Petrolchimico di Marghera, dove gli intellettuali non erano alla guida del movimento, ma parte di esso e la ricerca era con-ricerca, discussione fatta assieme, dialogo.
“Primo Maggio” fu la rivista che affrontò dal 1973 al 1989 il periodo di riflusso delle lotte del ciclo precedente. Dall’”operaio massa” degli anni precedenti, disciplinato dalla rigida disciplina di fabbrica gestita dai capi operai fordisti, negli anni ‘70 si passò al controllo delle macchine, che il gruppo aveva studiato. Si trattava di capire la riorganizzazione dell’industria dopo il grande ciclo delle lotte operaie, ma bisognava anche comprendere come il capitalismo si stesse ristrutturando dal punto di vista della finanza, del credito, della moneta e bisognava studiare nuovi temi come il ruolo della logistica e dei trasporti, di cui Bologna diventerà un grande esperto. La storia militante nasceva da questa esigenza di conoscere per cambiare ed era – come afferma Bologna – una storia non per i movimenti sociali ma con i movimenti sociali.
La storia militante, che utilizzò in modo massiccio le fonti orali, metteva in luce l’esperienza soggettiva del lavoratore e valorizzava l’importanza della lotta autonoma, al di là dalla disciplina della gerarchia politica e sindacale. Ma come fare se le lotte subivano un riflusso? Le otto tesi sulla storia militante che compaiono sul numero 11 della rivista non sembra offrano risposte positive e sottolineano invece i limiti dell’impostazione precedente. Se cade la militanza – secondo Bologna – cade anche l’interesse della storia a essa legata.
Nella seconda lezione c’è a mio avviso un nuovo inizio, dato dalla riflessione sul 1989. Bologna parla dei comunisti italiani che dopo il crollo del Muro, si svestirono tanto rapidamente dei panni consueti da rimanere in mutande e racconta l’umiliazione della DDR, il licenziamento degli studiosi che non volevano mettere sullo stesso piano la memoria delle vittime del nazismo e di quelle del comunismo, l’ostracismo verso i dissidenti del nuovo ordine, il ruolo della Germania nella dissoluzione della Jugosalvia.
Nella terza lezione Bologna si interroga sul presente e le sue urgenze chiedendosi perché quest’ultime siano scomparse dal discorso storico e riflette sul fatto che gli anni ‘70 sono da un lato dannati come “anni di piombo”, dall’altro esaltati come un assalto al cielo – legittimo ma andato male. Per Fontegher Bologna gli anni ‘70 sono invece anni di emancipazione sociale mai avvenute prima. Il problema è ragionare non sui vincitori e vinti di quella stagione, perché il confronto tra due poteri non c’è mai stato. Il ragionamento va incentrato sul tema delle conquiste durature e sulle trasformazioni transitorie e un dato di fatto è che l’intera società italiana, e tutto il mondo delle professioni, sono radicalmente mutati dopo quegli anni e non una delle professioni ha potuto fare a meno dell’emancipazione operaia per trasformarsi. Lavoro sul revisionismo e analisi concreta dei mutamenti e dei movimenti nati negli anni successivi, interrogando di nuovo le urgenze del presente. Non è di nuovo tempo di storia militante?