Abbiamo recensito su Pulp Libri il precedente libro di Sergej Roić, autore svizzero d’origine croata, che scrive in italiano: Solaris, parte seconda, storia della ricerca di un fantomatico seguito al famoso romanzo di Stanisław Lem, portato sul grande schermo da Andrej Tarkovskij. Anche in questo romanzo Roić si confronta con la fantascienza, almeno apparentemente. La forma narrativa scelta è infatti un tópos di genere, divenuto nel tempo un vero e proprio sottogenere: l’allostoria o storia alternativa, o ancora, come si dice tra appassionati con un neologismo d’origine greca, l’ucronia. L’ipotesi alla base di questi romanzi è che la Storia abbia seguìto una via alternativa a partire da un determinato momento nel passato, e ciò serve a raccontare un presente appunto alternativo al nostro: una metafora esplicita che gioca con elementi della politica, della scienza, dello sviluppo umano, per dire qualcosa del nostro mondo.
Classici esempi di storia alternativa sono il trionfo finale di Napoleone Bonaparte (Napoléon et la conquête du monde, 1836, di Louis-Napoléon Geoffroy-Château) o la vittoria dell’Asse nella Seconda guerra mondiale (The Man in the High Castle, 1962, di Philip Dick). Il sito web (in inglese) Uchronia. The Alternate History List, raccoglie migliaia di titoli catalogati da diverse lingue e da quasi tutte le letterature mondiali, che raccontano di un’enorme variabilità di situazioni, a partire da “punti di divergenza” lontanissimi nel passato: quattro miliardi e mezzo di anni fa.
Il romanzo di Roić si inserisce idealmente in questo filone; l’ambientazione ucronica però non è richiamata per una speculazione sulla storia, bensì per creare uno scenario nel quale l’immaginazione è andata al potere, come recitava uno degli slogan del maggio francese. La storia insiste piuttosto sul rapporto tra linguaggio e immagine, tra parola e mente umana.
A ogni modo, il “punto di divergenza” storica individuata da Roić non è troppo indietro nel tempo. Nel maggio 1968, durante il più grande sciopero della Storia mondiale, che paralizza per settimane la Francia, il presidente della Repubblica generale Charles De Gaulle muore d’infarto. Nella realtà, sciolse il Parlamento per indire nuove elezioni, che vinse; nella finzione narrativa, durante la repressione di polizia a fine maggio, l’esercito si schiera a fianco degli studenti, degli operai, degli scioperanti. Come conseguenza, un altro generale arriva alla presidenza della Repubblica, ma è di sinistra (anche se alcuni pensano che sia un opportunista), Sébastien Roche. L’esercito diventa garante “dell’integrità della Francia e [delle] conquiste della rivoluzione”.
Questo nuovo governo socialisteggiante, intorno al quale fanno il vuoto gli altri paesi Nato, è quasi costretto a strizzare l’occhio all’Urss. Così, quando nel 1971 un famoso regista sovietico, Martin Aleksandrovič Belogradski, conosciuto anche in Europa per tre lungometraggi definiti “la risposta al cinema occidentale d’autore”, dopo la partecipazione al festival del cinema di Cannes decide di non fare ritorno in patria, viene ospitato a Parigi con qualche imbarazzo.
Il principale consigliere ideologico del generale Roche è il filosofo decostruzionista Eric Feríta, seguace di Derrida; si dice che sia opera sua il testo dell’appello rivolto nel ’68 da Roche all’esercito, ai sindacati, ai partiti di centro non gollisti, per passare dalla parte degli scioperanti. Feríta suggerisce di proporre al regista di girare in Francia un film sulla rivoluzione del Sessantotto, con particolare riguardo all’episodio che viene unanimemente considerato il punto di svolta, il momento in cui l’esercito rifiuta di spalleggiare la polizia nel mezzo di una immensa manifestazione di popolo, quando una giovane sconosciuta, microfono in mano, canta per il pubblico: “Capelli biondi, occhi verdi, intonò una sua versione della Marsigliese, allons enfants de la fantasie, ma non furono le parole a far la differenza, la sua figura, il coraggio erano gli attributi necessari di quella voce irresistibile. Chi la udì disse che Jeanne parlò come i santi che avevano pacificato belve e guerrieri. Cantò, e la ascoltarono i manifestanti, i militari e i poliziotti. I gendarmi non la fermarono, non la arrestarono, anche se avevano ricevuto l’ordine di farlo. I militari che dovevano raggiungere Parigi, disobbedirono. Robert Besmar abbracciò sul palco la novella Giovanna d’Arco, le diede un nome, quel nome, le suggerì una missione, quella della salvezza della Francia, della speranza di un popolo, dell’avvenire dell’umanità. La ragazza dai capelli biondi, dagli occhi verdi, dalla voce indimenticabile trasformò le armi della retorica nel raro dono dell’innocenza offerta da un’anima pura”.
Protagonisti del romanzo di Roić sono tre studenti universitari: Georges Aubry, iscritto fuori corso a filosofia; la sua ragazza, la bella spagnola Irene, che possiede una voce particolare; infine, l’amico Louis. Georges ha già recitato come comparsa (ha fatto la parte del morto in Blow Up di Antonioni); vorrebbe darsi al cinema seriamente, perciò decide di sfruttare l’occasione della presenza di Belogradski a Parigi. Riesce a farsi notare indugiando con Irene nei pressi della casa affittata dal regista, che lo convoca e medita di affidargli una parte da protagonista. Per il ruolo principale femminile, viene naturale scegliere Irene: la sua voce particolare ricorda il potere suggestivo della Jeanne d’Arc al microfono, quel giorno in piazza, quando convinse l’esercito a mettersi dalla parte del movimento popolare.
Il russo in realtà cullava il progetto di girare un film diverso, tratto da Solaris (che nella realtà fu portato sullo schermo un anno dopo, nel 1972, da Andrej Tarkovskij). A ogni modo, intraprende le riprese di “Giovanna d’Arco, anno 1971”, che hanno luogo in condizioni difficili: la benzina è razionata, dal momento che la Francia viene “definitivamente allontanata dall’opulento mercato energetico”. Le riprese si spostano al sud: Hyères, Nizza, e la ricostruzione sceneggiata si mischia con la realtà, con il filmato casuale di un giovane gettato nella Senna dalla polizia e annegato.
Il romanzo di Sergej Roić, arricchito di citazioni, rimandi, digressioni, è anche un omaggio al decostruzionismo così come spiegato da Jacques Derrida. La citazione iniziale del testo infatti è una pagina dell’Enciclopedia Treccani: “Nella critica letteraria tale concezione ha ispirato un metodo interpretativo (sviluppato soprattutto dal decostruzionismo statunitense) che, rinunciando a individuare nel testo un significato univoco, mira a esplicitarne le infinite possibilità di senso, mediante il confronto con altri testi, anche molto lontani da quello in esame”.
La storia è divisa in quattro parti: “Decostruzione del soggetto”, “Decostruzione delle immagini”, “Decostruzione della mente”, “Cura dell’anima ferita”. L’ultima parte, che richiama esplicitamente il cognome del filosofo, è ambientata nel 2025, quando si tenta di ricostruire il passato esaminando le pellicole girate da Belogradski, per capire il Sessantotto e ciò che ne derivò. La forza del linguaggio nel plasmare il mondo di scontra con l’ineluttabilità delle ideologie, contro l’inerzia della Storia, e soccombe.