When we revolt it’s not for a particular culture.
We revolt simply because, for many reasons, we can no longer breathe.
Franz Fanon, I Dannati della terra
C’è qualcosa di profondamente commovente nel tratto dei disegni a pastello di Francesco Piobbichi che illustrano e raccontano la storia dello sciopero di Nardò; una delle prime esperienze in Italia di autorganizzazione dei migranti scesi in sciopero nel 2011 in Puglia, la terra che nel dopoguerra fu di Di Vittorio e delle grandi lotte bracciantili.
Sono disegni e figure nitide che nascono da un fondo tutto arruffato a cerchietti che troppo spesso si trasforma in rotoli di filo spinato, quando non in catene vere e proprie. D’altra parte le catene da schiavo non sono solo una metafora: in primo grado questi lavoratori hanno vinto la causa per schiavitù contro i caporali e i padroni. Una sentenza storica che segue a una lotta fin allora mai vista in Italia; sentenza che è stata, ahimè, ribaltata in modo clamoroso qualche mese fa con l’incredibile motivazione che all’epoca dei fatti non sussisteva ancora il reato di riduzione in schiavitù! Reato, paradossalmente, introdotto nella legislazione italiana, proprio con la legge contro il caporalato, approvata nel 2016 in tutta fretta dall’ultimo governo Berlusconi dopo questa epica lotta.
L’autore non ha voluto fare solo un libro celebrativo del coraggio e della determinazione – anche a rischio della vita – di chi fu protagonista di quello sciopero, ma un vero e proprio vademecum o manuale perché quella lotta giusta possa riprodursi. Piobbichi, infatti ha scelto di scrivere in italiano, francese e inglese perché i destinatari del libro, che sono in primo luogo gli stranieri, possano comprenderla e riattivarla. E i disegni vividi e immediatamente comprensibili – un po’ come i vecchi affreschi delle chiese che illustravano i testi sacri – parlano in una lingua universale.
Il libro di Piobbichi è importante perché mette in luce ciò che anche chi non ha un atteggiamento ostile o razzista verso i migranti stenta a riconoscere: questa non è stata una lotta etnica ma una lotta a pieno titolo ascrivibile alle lotte degli operai “italiani”. Perché la composizione del lavoro in Italia oggi è di fatto multietnica (nelle campagne, nelle fabbriche, nella logistica) e la ricchezza si fonda e costruisce proprio sulla segmentazione e la differenziazione della manodopera lungo le linee del colore, delle nazionalità, delle condizioni legali (secondo la legge Bossi-Fini se lo straniero non ha un contratto di lavoro cade nell’irregolarità).
Lo spiegano molto bene nell’introduzione Gianluca Nigro e Devi Sacchetto che, oltre a ricostruire con precisione l’organizzazione per linee interne ai lavoratori e le caratteristiche specifiche di questa lotta, fanno chiarezza anche su altri luoghi comuni scrivendo che i protagonisti dello sciopero erano: “un insieme di persone provenienti da diversi Paesi africani con ricche e articolate esperienze politiche: rifugiati delle Primavere arabe; migranti da lungo tempo in Italia che avevano perso il lavoro a causa della crisi economica iniziata nel 2008; e infine braccianti che da anni si spostavano in diverse aree prevalentemente del Mezzogiorno sulla base dei periodi di raccolta.” Dei ghetti inoltre mettono in luce le ricche relazioni sociali fra pari seppur sotto il tallone dei caporali. (Sarà un caso che i ghetti periodicamente vengano rasi al suolo, e le persone che li abitano disperse, i legami rotti, peraltro, senza soluzioni dignitose alternative?).
Una soggettività ricca e articolata, dunque, molto lontana dagli stereotipi – anche i più benevoli e solidali – che vedono sempre i migranti come una massa indistinta, senza storie comuni, risorse, desideri; oggetto e proiezione delle nostre paure o dei nostri afflati, semplice “nuda vita” per usare un’espressione molto spesso usata a sproposito.
Gli scioperanti di Nardò con la loro lotta hanno invaso lo spazio pubblico e politico da cui ordinariamente sono esclusi, proprio perché essenzialmente senza diritti seppur formali, invisibili e senza parola. Non solo persone alla ricerca della sopravvivenza e profughi in fuga da paesi in guerra o invivibili, ma lavoratori che vogliono essere protagonisti del proprio destino e non essere ridotti a semplice forza lavoro che viene usata secondo il fabbisogno, in condizioni semischiavistiche e poi, buttata via, se ne deve andare per lasciare il posto ad altri schiavi. La loro lotta dice inequivocabilmente che “il lavoro in pelle bianca non può emanciparsi in un paese dove viene marchiato a fuoco quand’è in pelle nera.”
Sulla dannata terra è l’ultima parte di una trilogia che comprende Sul mare spinato e i I disegni della frontiera un lavoro che evidenzia secondo le parole di Piobbichi, operatore sociale sulla Open Arms, e nei corridoi umanitari organizzati dalla Federazione delle chiese evangeliche, la “maledizione che i migranti si portano al collo per tutta la vita e li rende frontiera mobile ovunque vanno.”
I proventi del libro saranno devoluti a SOS Rosarno che in Calabria fa agricoltura sostenibile rispettando i diritti dei braccianti italiani o stranieri che siano.