Scuola addio: al titolo ho tolto persino il punto interrogativo con cui inizialmente avevo creduto di poterne addolcire la brutalità. Non sono riuscito a trovare titolo più adatto per questo primo articolo che fa da apertura a una serie di interventi sullo stesso tema e su tutte le estensioni tematiche che esso comporta … e che ci obbliga a ripensarci da dentro la nostra singola persona. Su questa linea di condotta si possono avere incertezze ma non dubbi. (A.A.)
La scuola come abitudine sociale all’obbedienza
Si dice addio a persona o luogo che s’è certi di non potere più rivedere e frequentare. Anche a volerlo! E il motivo di questo strappo e tanto più il sentimento che esso produce – volontario o involontario, autentico o finto che sia – dipende comunque dal rapporto che chi abbandona ha avuto con l’incombenza della persona abbandonata: il suo luogo di convivenza con te stesso. La casa che, per propria o altrui volontà o necessità, hai lasciato. Che hai dovuto o voluto abbandonare, perché costretto. Perché hai sentito il desiderio di abbandonarla. Oppure si può dire al contrario: la persona da cui ti sei accorto – fatto accorto – di essere stato abbandonato, rifiutato, già prima. Persino assai prima che te ne rendessi conto ovvero che lo sapessi. Magari essendo stato sin dal principio abituato da lei a non saperlo.
E infatti, se ci riflettiamo, la scuola è davvero una immane abitudine sociale: si è abituati, si è stati abituati a pensare e vivere la scuola come apparato, istituzione, funzione civile, eticamente civile e socio-economicamente produttiva. Come è in tutto naturale per un dispositivo di socializzazione destinato sin dalle sue lontanissime origini, dai suoi primordi, a preparare, addestrare, i nuovi nati al mondo, a dare un abito ai sopravvenuti al e dal tempo passato: corpi da educare ai bisogni di chi li ha generati. Dispositivo, dunque, istintivamente approntato all’ istruzione delle nuove generazioni abituandole a inserirsi nelle necessità delle vecchie, morte o in procinto di morire, e a farsene carico. Incarnarne il destino.
Queste necessità sono da sempre garantite dal lavoro richiesto, imposto, dalla volontà di sopravvivenza del proprio sistema di appartenenza. La funzione educativa rientra in questo disegno. Formare al lavoro e anche formare il lavoro stesso, qualificarlo, stabilirne i tempi e le regole. Qualificarne i modi e fini. Lavoro e educazione procedono su una stessa linea quale sia il loro reciproco attrito, ovvero conflitto, oppure il più stringente – violento o persuasivo – compromesso. Insieme, educazione e lavoro fanno da inarrestabile motore del patto sociale negoziato dalle forze che governano e amministrano un determinato territorio. Tutto questo – per quanto detto rozzamente – è dietro, fa da fondamento, a qualsiasi programma scolastico e formativo, dunque qualsiasi organigramma disciplinare.
Mai pensato che la parola disciplina è condivisa dal linguaggio civile e da quello militare? Questa malefica con-fusione tra regimi di pace e regimi di guerra fu assai evidente quando – ormai avvenuta da tempo la civilizzazione attraverso la riproduzione e diffusione delle immagini – gli edifici scolastici ottocenteschi assunsero strutture in tutto uguali a quelli delle caserme e degli ospedali. Dunque un piano urbano – abitativo – in comune per l’addestramento nazionale all’obbedienza e per la cura e riabilitazione dei malati. Ma tutto questo con alle spalle l’utilitarismo economico-politico e morale di quel Jeremy Bentham che, con il suo Panopticon, ideò strutture carcerarie in cui la visibilità dei corpi dei condannati garantisse una assoluta sorveglianza sugli eccessi e devianza della loro carne.
La scuola come piattaforma comunicativa
A guardare un gioco del Monopoli ogni palazzo della città è diviso in virtù delle sue funzioni. Si procede sul territorio per “caselle”. Se pensiamo alle funzioni della scuola le immaginiamo separando allo stesso modo i suoi luoghi, le sue strutture e il loro funzionamento da tutto il rimanente. Pensiamo ad aule, libri, insegnanti, presidi, prove scritte e orali, valutazioni, esami finali. Accessi alle classi superiori. Sostenibilità e vendibilità dei titoli ottenuti sul mercato in termini di lavoro garantito. Sino all’Università, ai loro corsi, le loro discipline, i titoli professionali che impartiscono e la qualità di chi li impartisce. Tutto in vista del mercato delle professioni. L’elenco è troppo vasto per le poche righe che ho a disposizione. E ancora più vasto diventa a elencare i diversi comparti del sistema di ministeri e procedure politiche da cui tutto dipende. Troppi i segmenti in cui l’insieme di cui dovremmo tenere conto si divide, orizzontalmente e verticalmente. Sta di fatto che, pur così vasto il quadro che ci immaginiamo è deprivato del sangue, della linfa vitale, che vi scorre dentro e che straborda all’esterno della sua cornice.
Allora proviamo invece a vedere la scuola da un’altra angolatura: l’estensione di affetti e sentimenti personali che la rendono possibile e che al contempo essa produce dentro e fuori dei suoi confini istituzionali: rapporti tra genitori, figli, insegnanti, e tra le loro rispettive cerchie di appartenenza. Quanto tali sentimenti siano stati da sempre sottostanti agli apparati della scuola – nonché agli apparati che ne stabiliscono direttamente le regole e anche agli apparati per i quali essa è destinata a fruttare socialmente. Ce ne siamo accorti tutti – di questa altra faccia della scuola – quando l’indebolirsi della sua autorità e la minore sua resa qualitativa si è sgretolata. Quando vere e proprie passioni – tanto avverse tra loro da venire persino “alle mani” – si sono manifestate da e tra ogni parte in causa. Esasperazione invece che fiducia e speranza.
Ma a voler pensare la scuola dentro una bolla di sentimenti – piaceri e sofferenze, desideri realizzati e infranti, felicità e frustrazione, benessere e disperazione – molti altri indicatori si possono trovare. Si pensi alle condizioni di acuto disagio esistenziale che gli insegnanti vivono a causa del trattamento economico che subisce la qualità del loro lavoro, e la loro conseguente dignità sociale e familiare. Oppure alle condizioni di emarginazione e violenza in cui gli spazi materiali, normativi e comportamentali dell’educazione scolastica costringono per così dire strutturalmente giovani con difficoltà di ceto, di sesso, di salute mentale o fisica. E la rassegna dei sentimenti in gioco dietro gli ingranaggi della macchina scolastica – felici o infelici che siano – potrebbe continuare in estensione e profondità. Tutto questo, nel bene e nel male, si produce nella scuola e la produce.
Ecco perché, per evitare un titolo del tipo “contro la scuola” o “un’altra scuola” o “critica della scuola”, ma per dire invece la necessità definitiva, assai più urgente, radicale, di abbandonarla qui e ora, ho fatto ricorso ai vari e contraddittori sentimenti in gioco nel dire addio a una persona. Quando essa è divenuta irreparabile e non può più essere riformata.
Cosa c’entra il cinema?
Insisto: s’è abituati – lasciate perdere le eccezioni – a considerare gli apparati dell’educazione, della istruzione e della formazione come un lavoro di produzione e fruizione per così dire verticale e non come piattaforme comunicative di natura estremamente espansa: cioè una rete complessa di relazioni orizzontali, una sfera di senso che, invece di essere stretta in sé, si estende ben oltre le mansioni dei singoli apparati. Anche oltre il loro accumulo e distribuzione di saperi, la loro selezione, elaborazione e trasmissione in contenuti disciplinari, la registrazione e valorizzazione dei loro risultati, degli effetti ottenuti. E via dicendo in una serie di connessioni magari indirette, magari incoerenti, eppure comunque attive.
Ma se come vi ho proposto la scuola la si pensa invece come piattaforma comunicativa, allora nella sfera scolastica rientra ogni accadimento, bisogno e scopo, interazione e attrito di apparati ad essa connessi anche e soprattutto sul piano dei sentimenti e dei sensi delle persone e dei loro luoghi e tempi di vita. Sul piano dei bisogni e dei desideri. Di simpatie e antipatie, simbiosi e repulsioni. Considerata così, la scuola – ed avete capito ma devo insistere che sto parlando anche di scuole superiori e di università – può essere considerata mai di fatto separabile da molte altre piattaforme espressive di natura collettiva. Esattamente il contrario di come se la immaginano (e la impongono) i più dei suoi addetti e dei suoi amministratori. Ad esempio – non scandalizzatevi – persino non diversamente dal cinema, prima ancora della televisione e ora delle reti (guarda caso piattaforme che la scuola ha sentito di volta in volta come “differenti” ed anzi sempre più nemiche, intruse oppure, nei casi più felici, da contenere sulla base di principi e valori ad esse estranei).
Dunque perché il cinema? Ripeto: non scandalizzatevi. Basta che vi spingiate alle lontane origini della fotografia e del cinematografo per avere le prove di un processo iniziato grazie a dispositivi meccanici nati e applicati con l’intento di educare i giovani e adulti a imparare religioni e norme e modelli e memorie da osservare e conservare, tradurre e tramandare, nella vita quotidiana. Ripensando la storia dei primi decenni di vita degli schermi, se ne può ricavare una fruttuosa lezione, utile ad essere messa a confronto con le successive piattaforme espressive, sino a includervi la specificità della scuola (del resto, sempre a fugare i vostri dubbi, pensate a questo: il suo luogo di più lunga durata, ovvero l’aula, non è forse una messa in scena teatrale, anzi di teatro dentro il teatro? E un insieme di aule situate sul territorio non è forse composto di tanti teatri della memoria?).
Si può sostenere che proprio grazie alla sua qualità comunicativa ogni piattaforma, prima di consolidare la sua specifica natura espressiva viva una fase caratterizzata da labili confini rispetto alla piattaforma che ha fatto da ambiente al suo avvento. Il cinema lo dimostra. Per convincervi di questo, andate a leggervi le cronache sul nascente fenomeno del cinema e magari le prime recensioni pubblicate su film usciti negli anni Venti da uno scrittore come Joseph Roth (sì proprio l’autore di La cripta dei cappuccini e La leggenda del santo bevitore). Avrete la prova di quanto il primo cinema non fosse chiuso nell’interfaccia tra schermo e pubblico, ma si manifestasse dentro e grazie a uno spazio invaso, composto, orchestrato da esibizioni musicali, danze, numeri di varietà, attrazioni, sfilate: il multiverso sensoriale e immaginifico che le prime grandi sale cinematografiche congelarono nelle statue e negli addobbi dei propri interni. Poi tutto questo fu narrato dallo schermo. E poi esso fu a sua volta invaso e trasformato da una natura espressiva, tecnologica, in tutto diversa – fuori della sala cinematografica – come la televisione. Piattaforma multimediale domestica in grado di comprendere in sé persino i vecchi confini fisici e territoriali delle aule scolastiche. E poi tutto finì per rientrare e cioè riaprirsi nelle reti.
Il virus organico e l’anamnesi del pensiero scolastico
Ma è bene tornare direttamente alla scuola. A questo proposito, qui basti dire che le piattaforme comunicative, nel raggiungere il loro specifico sistema di funzionamento, di messa in funzione sociale, si muovono attraverso processi di apertura e chiusura, inclusione e esclusione, sistole e diastole, tra loro e l’ambiente in cui si producono e consumano. Dunque è l’ambiente a nutrirle e nutrirsene: esse sono davvero comunicative se sono effettivamente espressive, cioè se fanno uscire da sé qualcosa con cui premere sulle persone ed essere da queste a loro volta premute. Che altro se non il corpo – la sua carne vivente e cioè espansa in ogni altrove di cui senta la presenza – può essere la materia organica che preme! E da premere! Mia madre insegnante, per dirmi di rispondere alle sue domande, mi diceva “spremiti!”: lei, pur intuendo di chiedermi uno sforzo fisico, pensava al mio cervello, per metterlo alle corde, ma io le resistevo con tutto il mio corpo, comprese le sue opacità.
Meglio quindi che stringa il discorso su quell’insieme di funzioni formative – di cui la parola scuola è il fulcro reale e simbolico – che da così lungo tempo fa questione ma ora ci urge addosso come mai prima grazie al virus Covid19. Tremendo dire grazie a una calamità mortale che miete vite umane, eppure è un fatto che il problema della scuola è restato inevaso e s’è incancrenito a causa della cecità con cui non si è saputo o voluto riconoscere la sua malattia mortale. La sua dannosa sopravvivenza nella nostra vita. Infatti è accaduto che, per effetto di una catastrofe umana prima che sociale, sia implosa la sua anomalia congenita. Essere cioè una piattaforma mediatica estremamente complessa per le ragioni prima da me abbozzate e cioè in quanto composta da un insieme di piani comunicativi – campi di forza, livelli sensoriali e cognitivi – interconnessi tra loro anche quando periferici o apparentemente estranei l’un l’altro, ma di cui le istituzioni scolastiche e le culture in esse dominanti non hanno mai tenuto sostanzialmente conto. Ma, ad evitare la comprensione, hanno invece eretto una vera e propria cortina del silenzio, una barriera invalicabile. Una falsificazione opportunista o ignorante.
Al massimo una simulazione di ascolto operata facendo sponda con i saperi – le religioni, i miti, le ideologie – di un’altra piattaforma comunicativa, ristretta alle tradizioni di pensiero del lavoro intellettuale d’eccellenza, quello più autorevole e quindi autoritativo. Più speculativo e quindi più resistente alle forme correnti della divulgazione culturale. Un lavoro intellettuale di per sé non direttamente strumentale come è invece quello applicato ad allevare i giovani sino a quando diventino socialmente produttivi e appetibili per il sistema. Intendo quindi riferirmi a forme di pensiero più proprie – stretta proprietà – dei ceti sociali che, avendo accesso a queste alte tradizioni, ne incarnano i privilegi personali, storici e sociali. Al contempo tuttavia questa piattaforma, pur così marcatamente circoscritta, vive ed è sempre essa stessa vissuta delle funzioni e pratiche della scuola, se ne alimenta e la alimenta. Il lavoro intellettuale altamente concepito costituisce le basi, i fondamenti, delle materie di insegnamento impartite ai giovani e costituisce la competenza di una discreta parte del corpo docente.
Ma allora il cane si morde la coda? Sembra difficile uscire da questa contraddizione, se non fosse che l’estremo schematismo della mia posizione anti-sapienziale può valere da provocazione necessaria per arrivare al passaggio per me più importante. Per salvaguardare la cecità che contraddistingue ogni forma di educazione e professionalizzazione oggi in funzione, la scuola – tutto ciò che ho voluto sintetizzare in questo termine – si è rivolta, trovandovi conforto e sostegno, soltanto ad una parte, ad un fronte della cultura alta, quella più utile e strumentalizzabile ai fini della propria conservazione. Si è affidata al prestigio delle sue opinioni, con tutte le loro capacità di convincimento. Dunque ha fatto perno su quella sfera conoscitiva restata maggioritaria in virtù di un sapere sociale, istituzionale e politico ostinatamente progressista, irriducibilmente moderno, ovvero strumentale. E per questo conforme a una opinione pubblica subordinata – persino nelle sue punte di maggiore sofferenza – ai valori della civiltà capitalista, delle sue tradizioni occidentali: della falsa coscienza di cui sono ammantate. A proprio favore questo fronte ha goduto anche e soprattutto delle forme di divulgazione del sapere supportate dal giornalismo e dalle agenzie culturali di maggiore presa sui consumi e sulle mode. Proprio qui, scuola e media (vecchi e nuovi: ma i vecchi assai più dei nuovi) hanno fatto resistenza e opposizione ai contenuti di una tradizione culturale – alta al pari se non più alta di quella egemone – maturata in forme di pensiero antitetiche al pensiero corrente nelle istituzioni preposte all’educazione civile e professionale dei giovani.
Una scuola in cattività
Cosa si intende per cattivo funzionamento di un apparato? Risponderei giocando sul doppio significato dell’aggettivo cattivo appena si pensi alla sua vicenda etimologica: uno riguarda lo scarso se non in tutto adulterato e nocivo funzionamento di uno specifico apparato in merito e relazione ai suoi scopi e risultati. L’altro significato – per così dire più profondo, più originario – rimanda alla condizione di prigioniero in cui versa l’apparato in questione e quindi le persone, i soggetti e i sistemi sociali che lo usano e ne sono usati. Questa duplicità di senso può aiutarci a impostare la questione della scuola e dell’università qui e ora. Due campi distinti tra loro che si possono unificare nel solo termine formazione dei giovani ma che, come s’è visto, ho preferito tuttavia sintetizzare nel termine scuola per il semplice fatto che con essa tutto ha inizio e resta essenziale tanto per la sfera privata quanto per quella pubblica. Anzi essa è insieme al di sopra e al di sotto di ambedue queste sfere: sintetizza il momento cruciale in cui le vocazioni della persona sono chiamate, convocate, e obbligate a confrontarsi con il proprio ruolo sociale. Meglio: dovrebbero essere chiamate a decidere sui valori e modi con cui professarli. A rispondere loro. A farsi responsabili.
La scuola. Si tratta di un apparato in discussione non ora ma da vari decenni: c’è chi colloca il suo cattivo funzionamento addirittura alle origini delle istituzioni scolastiche già prima del Fascismo, e – dopo – già all’inizio e lungo il corso di quelle ridefinite, rinnovate, dai valori costituzionali della Repubblica. Ma qui non intendo fare la storia di tutto questo, tutto sommato una storia specialistica dunque in tutto fuori dalle mie intenzioni, interamente riversate invece sul presente che c’è e sul futuro che ci manca. Al nodo gordiano che la pandemia ci dovrebbe costringere a tagliare.
Comincio con una affermazione brutale: la scuola e l’università hanno conservato ed anzi aggravato le loro cattive condizioni con la Riforma Berlinguer che avrebbe dovuto innovare apparati ormai troppo consunti o troppo resistenti o troppo subalterni ai mutamenti della società e del mondo. Questa affermazione non ha trovato, non trova e forse stenterà sempre ancora a trovare concordi tra loro le diverse categorie professionali deputate a valutare scuola e università. Intendo riferirmi a quell’insieme di voci – autorità accademiche, burocrazia e politiche amministrative, apparati dell’industria e del mercato, operatori dei media – direttamente coinvolte dagli interessi e negli interessi della scuola e della formazione. Un insieme di voci che non credo si debba e si possa confondere con ciò che, grazie a non poche manipolazioni, ancora si intende come opinione pubblica. E questo perché, a volere considerare tale espressione – pur così tanto ricorrente nei linguaggi della società civile – facendo ancora riferimento a una maggioranza o insieme di maggioranze e minoranze di popolo, una effettiva cognizione dell’argomento a cui cerco di dare voce è ad oggi del tutto o quasi assente. Ovvero l’opinione pubblica risulta in massima parte espropriata, svuotata, di qualsiasi competenza formativa dagli istinti, affetti, bisogni e interessi di due agenzie di socializzazione: la famiglia e la politica (agenzie per tanti motivi conniventi), ambedue sovrastate, ed è ciò che oggi più conta capire – dall’economia classica e ora finanziaria, con le sue forme sempre più violente di globalizzazione planetaria di ogni sfera pubblica e privata, individuale e collettiva, personale e soggettiva ovvero identitaria. La stessa durata di questa discussione sui modi e sui fini della formazione delle persone dai primi anni dell’infanzia sino alla istruzione professionale dimostra che c’è evidentemente un costante intoppo – o rimozione – nei soggetti che sino ad oggi se ne sono fatti carico.
Qui calza a pennello la sentenza di ritenere nella condizione di prigionieri i soggetti al lavoro nella scuola. Essi sono al servizio di un sistema da cui non possono uscire, non potendo sbarazzarsi dalla loro condizione di cattività. Certamente non dall’idea umanista di libertà di cui essi si sono nutriti. Questa la ragione per cui a poterli svincolare da tale idea, ideologia, dovrebbe intervenire una permutazione di valori in tutto opposti alla loro epoca di appartenenza storica e sociale: l’epoca che li costringe a travisare il senso di un’epoca della fine, come quella presente, in un semplice fine d’epoca. Ancora di nuovo insensibili – dopo le terribili vicende novecentesche, l’olocausto e la Bomba – all’ammonimento della attuale pandemia come catastrofe irreversibile della modernità e di ogni suo ambiente di vita.