Scheletro nell’armadio

András Forgách, Gli atti di mia madre, tr. Mariarosaria Sciglitano, Neri Pozza, pp. 320, €18,00 stampa €9,99 eBook

András Forgách è uno scrittore ungherese poco noto in Italia, ma possiamo esser certi che questo libro susciterà grande interesse, di pubblico e critica, una volta giunto nelle librerie. Vi si racconta l’esperienza straniante di un figlio quando viene a conoscenza, informato dall’archivio dei servizi segreti di stato, che un suo familiare, la madre, fu un collaboratore (in pratica una spia) nei tempi precedenti la caduta del muro di Berlino. E che per un certo periodo ebbe l’incarico di spiare proprio lui, o almeno di far accedere gli agenti dei servizi all’appartamento del figlio, colpevole di ospitare un poeta contestatore del regime.

Avi-Shaul Bruria si chiamava, nata in Palestina nel 1922, da una famiglia di intellettuali, era considerata donna di grande bellezza, di fascino eloquente per forme e linguaggio. Era sposata con Marcell Friedmann, comunista ed ebreo rinnegato che diventò un agente segreto al servizio del governo ungherese col nome ufficiale, ma frutto di invenzione, di Pápai. Entrambi si trasferirono a Budapest quando si creò lo stato di Israele, ebbero quattro figli, tra cui András, e Marcell con la copertura di giornalista assunse a Londra il ruolo effettivo di 007 del regime. Ma nel 1975 egli si ammala, e la “signora Pápai” (come viene rappresentata nel romanzo) accetta il ruolo di collaboratrice segreta, secondo la denominazione in uso presso il ministero degli Interni.

Da lì in poi si avvia questa storia problematica e per così dire “tossica”, che viene raccontata nel libro di Forgách con un’enorme quantità di documenti ufficiali, gli stessi resi disponibili (soltanto da pochi anni) dal governo ungherese di Viktor Orbán. Atto accompagnato dal permesso della libera pubblicazione da parte dei diretti interessati, a patto di venire ammessi come ricercatori ufficiali. In Gli atti di mia madre la storia è raccontata su due fronti: il primo insegue i ricordi dell’autore, ben custoditi nel settore sentimentale dell’anima. Da un lato si scopre il rapporto non sempre felice con il padre, con i dilemmi e gli strani comportamenti quotidiani, dall’altro la ricostruzione il più possibile aderente alla realtà degli incontri avvenuti fra la madre e gli esponenti a capo dei servizi. E si comprende quanto l’avvenenza e la signorilità della “signora Pápai” si mescolassero nella mente di questi signori agli scopi da essi perseguiti, fino a renderli forse un poco vulnerabili anche se fermamente determinati a farle compiere ciò che le veniva richiesto.

Forgách per più di un anno frequenta gli archivi col cuore e il pianto in gola per la scoperta e per il mondo oscuro che emerge dai rapporti fin lì secretati e che invadono come una marea la vita fin lì vissuta. Sua madre è morta nel 1985, non può più parlarle e confrontarsi con lei, cercando di analizzare la parola “tradimento”. Capisce come il solo modo di raccontare la storia sia quello di incrociare i ricordi personali e gli atti ora in mano sua: una narrazione interamente personale accanto a un testo a fronte con la trascrizione fedele dei documenti. Un ibrido tra i fatti intimi, familiari, e gli “atti” (appunto Gli atti di mia madre) dei dossier finalmente rivelati.

Tutto questo può ricordare il giornalismo letterario di Truman Capote, dove gli elementi della fiction vengono per così dire drammatizzati in un’opera letteraria. Ma Forgách si trova davanti a qualcosa di ben più personale, dentro un mistero di cui è stato per lunghi anni protagonista inconsapevole. Tenere a bada i salti del cuore, riuscire a controllare ogni reperto, mentale e documentale, dentro a una prosa ricca di affabilità e di rigore al servizio di un lavoro così doloroso non deve essere stato facile. Ma infine ci troviamo di fronte a un’opera straordinaria, un dramma che mette in luce, accanto alla biografia famigliare, una parte di quegli avvenimenti a lungo avvolti nell’oscurità e che hanno influenzato le sorti dell’Europa dal secondo dopoguerra alla riunione delle due Germanie dopo l’abbattimento del muro di Berlino.

Risulta chiaro come la situazione ebraica fosse al centro dell’attenzione dei paesi comunisti d’Oltrecortina. Cosa c’era di meglio, per il governo ungherese, che avere fra le mani una famiglia di “rinnegati” ebraici, e soprattutto una donna avvenente e di ferma convinzione comunista, per effettuare controlli sottotraccia sulla vita di persone anche strettamente imparentate? L’autore in una recente intervista afferma che nulla è cambiato in lui, dopo l’estrema esperienza di scoperta e scrittura, verso sua madre e chi addirittura gli ha scritto che deve esserle grato per avergli dato la possibilità di scrivere un simile lavoro.

Probabilmente Forgách (drammaturgo e romanziere, traduttore di testi classici e moderni, insegnante all’accademia teatrale e cinematografica di Budapest) non aveva bisogno di tutto questo, ma possiamo esser certi che il suo impegno di storico “confidenziale” e intrinseco sugli accadimenti della recente storia europea continuerà. E con scoperte di provata qualità e per niente effimere.

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