Abitare la leggenda doveva essere un’immensa fatica, almeno quanto per un bimbo raggiungere i tasti bassi e quelli acuti di un pianoforte, molto distanti e quasi irraggiungibili. Le dita minuscole costringevano a torsioni corporali estreme e pericolose, a movimenti goffi, ma per Arturo Benedetti Michelangeli in quel dicembre del 1926, durante il primo concerto a Brescia, l’algido distacco e la consapevolezza già si rispecchiavano nel demoniaco futuro che lo aspettava, contornato dal delirio universale del pubblico. A sei anni e due mesi, scrive Roberto Cotroneo nel racconto di un mito incarnato, ABM già controllava, distaccato dal mondo, “quel mostro di corde tese” dalla meccanica perfetta e rude che si chiama pianoforte. Certamente non uno strumento alla portata di una minuscola creatura. Quella sera prendevano forma una storia vertiginosa e una storia d’amore: in platea la piccola fan di nome Giuliana lo ascolta. Un giorno diventerà sua moglie.
Cotroneo si chiede in che modo possano interessare, a un pubblico lontano, le infinite varianti di un’interpretazione pianistica, le ossessioni di musicisti che più o meno valorosamente affrontano uno spartito, e cosa voglia dire miscelare esercizio, meccanica, consapevolezza, artigianato, e perché ginnastica e destrezza alla fine diventino arte. La parabola di ABM, così descritta, può varcare gli enigmi e aprire una strada a chi oggi sorvola veloce le complessità accontentandosi di astruserie e scemenze trovate nella rete e suoni digitalizzati tutti uniformi e ripetibili uguali all’infinito. Benedetti Michelangeli tolse presto di mezzo intollerabili incertezze e sfumature date dal temperamento dei più: non Rubinstein, dunque, o Horowitz, ma la perfezione cristallina giunta direttamente da Liszt. Dalla giovinezza alla famiglia di Foligno e Terni, alle frequentazioni di insegnanti autorevoli in quell’epoca, alle puntualizzazioni numeriche importanti nella particolare Qabbaláh di ABM, dopo essere stato per breve tempo Arturo, questo e molto altro si rintraccia nell’informatissimo (e in molti modi “poetico”) racconto di Cotroneo. Il lettore, nell’ambito delle pareti di casa, riesce a percepire le atmosfere delle sale da concerto, le remote asserzioni delle ottave: se non le rocambolesche variazioni di Bach, di certo tutti i paradisi del mago Ravel. Dal libro all’invernale solipsismo di un pianoforte fatale il passo è breve, e dunque il plauso va a un’opera tanto aggraziata da infondere inedite affettuosità fra cultura musicale profonda e orecchi non distratti, forse non in grado di conoscere ma sicuramente di capire.
Alberto Arbasino scrive che forse l’ansia di una qualità assoluta, di un perfezionismo spasmodico, “nasce sotto il segno malinconico di Saturno”. Vero è che far saltare interi concerti a causa di un’improvvisa presenza sgradita di fiori sul palco, rei di mutare umidità e atmosfera, e dunque il lavoro dei martelletti sulle corde, oggi sembrano azioni riprovevoli di un genio assurdo. La mancanza di un repertorio sistematico fa capire molto della caratterialità di ABM, degli improvvisi scatti d’ira e altrettanto inaspettate delicatezze, ma poi tutto quanto sprofonda nella vertigine della composizione “impossibile” di Ravel: Gaspard de la nuit. Qualcosa di terribile e cattivo per difficoltà tecnica. L’impressionante esecuzione di ABM, ripetuta più volte (anche nella Sala Nervi della Città del Vaticano), per Cotroneo sembra uscita da un buco nero, sembra presa dalle mani di Ravel con impossibile “semplicità”. Io so il tempo giusto, affermava il pianista, perché sono amico di Ravel. Però vi fu un solo incontro nel 1937, anno della morte del compositore quando ABM aveva solo diciassette anni. Quel che dice non sempre corrisponde al vero, ma la mitologia va e viene, e di quest’uomo affascinante e controverso la storia non ha lasciato molto. Discontinue registrazioni in studio, e forse alcuni filmati dispersi negli sterminati archivi RAI.
Molti pensavano che dentro la perfezione allignassero abbondanti incoerenze, fra invidia e più o meno silenti rimproveri (di orchestre e direttori) rara fu la simpatia, nonostante l’adorazione delle folle crescesse a dismisura. Il distacco dal mondo, e le fragilità che la moglie Giuliana ben conosceva, non impedirono a ABM di disporsi ad affetti rinchiusi nella sua proverbiale discrezione. Dopo la morte della moglie, in un libro di memorie, la pianista Marisa Bruni Tedeschi (madre di Carla Bruni e Valeria Bruni Tedeschi) racconta la sua relazione, intermittente dal primo incontro avvenuto alla fine di un concerto nel 1973, con colui che chiamava “Archange”. Quando appare sul palco, in un frac sempre più inattuale, il pubblico sparisce, non sembra interessargli mentre respira nel fodero della concentrazione totale. Chopin e Debussy s’impossessano (o accade il contrario?) del pianista elegante e lontano, e ogni suo fugace sguardo verso la platea è vuoto, disciolto in distanze siderali. I rapporti più intensi, in qualche caso strazianti, sono con i maestri accordatori di pianoforti. E inutili gli sforzi delle case discografiche per convincerlo a frequentare gli studi di registrazione. Per i primi, impraticabili sacrifici ai limiti della sopportazione, per le seconde pressoché resa totale di fronte ai rifiuti. Cotroneo aziona le leve di un tempo ormai scomparso, ne descrive amorevolmente tic, tempestose rivoluzioni, arte e poesia, accanto a leggende di dandysmi che precorrevano le azioni grossolane dell’attuale star system. Ma la trappola del mito non riesce a nascondere l’amarezza per quel che di lui abbiamo perduto. La simpatia d’altronde si accende per quest’uomo appassionato di auto sportive, e che terrorizzava chiunque avesse l’avventura di sedergli accanto nelle sue spericolate scorribande a velocità folli. Quali infantilità si scatenavano in ABM mettendo a repentaglio la sua vita, se non la buona salute di mani e articolazioni? Mistero.
Mistero che, capitolo dopo capitolo, Cotroneo avvolge nella sua ricerca affiancando, con lucido amore per la musica, il genio di questo pianista offerto al Novecento pur nell’equivoco delle vanità. Forza e fragilità seguite per l’intera parabola fino al declino inesorabile: malattia e stanchezza, alle soglie del 2000, vengono ricondotti a un leggendario misticismo. Muore nel 1995, durante il funerale l’umidità che fa male al suono riconquista infine gli spazi, fra sguardi mesti e addolorati. Il demone della perfezione di Cotroneo, colmo della sua passione pianistica, in tempi d’incertezza cosmica invita tutti a tatuarci d’altrettanta passione, e a farci influenzare dai regali del genio. Non avendo eredi, andiamo alle fonti, scaliamo la memoria avvolti dall’intimità dello spirito musicale.