“Feci un passo indietro, ed ebbi l’impressione di fare un passo indietro anche nel tempo”; così Saša Stanišić, con movenze del tutto personali, inserisce quel continuo fluttuare in labirinti temporali, quell’oscillare fra passato e presente che costituisce la peculiarità di Origini. La sua scrittura asseconda le impreviste traiettorie della memoria, per cui i luoghi e i personaggi appaiono e scompaiono dal grande sipario del mondo, evocati da un sapiente alchimista. Indagare le origini significa gettare lo sguardo in un abisso oscuro, modellato dalla casualità.
“L’ospedale dove sono nato non esiste più”, scrive Stanišić, e ancora “il Paese in cui sono nato non esiste più”, introducendo il tema dello straniamento e della disgregazione: la scrittura appare come un argine all’oblio, una maniera per ricomporre frammenti che altrimenti resterebbero privi di senso. Lo scrittore, costretto a emigrare dalla Bosnia in Germania per il deflagrare della guerra del 1992, percorre i territori dell’ex Jugoslavia alla ricerca della propria individualità smarrita. Una sfida che coinvolge anche i labirinti del linguaggio e le sue asperità, in quanto Stanišić si esprime in lingua tedesca.
Quando giunge all’estero dal suo Paese martoriato è un emigrato come tanti, esiliato dalla lingua locale. In quest’ottica il suo essere scrittore è una conquista e un privilegio. Citazioni da Eichendorff, il più puro dei lirici tedeschi, testimoniano un radicamento profondo nella cultura germanica. Il viaggio di Stanišić non è per nulla lineare, ma viene disorientato dalla nostalgia. Oggetti apparentemente insignificanti, una tessera di partito, un referto medico, una vecchia foto, contribuiscono a richiamare in vita persone da tempo estinte come il nonno Petar. L’autore deve governare una moltitudine di storie, le quali chiedono di essere raccontate. Le parole sembrano volerlo confondere. L’unica via d’uscita risiede nell’afflato corale in grado di recepire la complessità di un mondo che sbiadisce a poco a poco, come la memoria della nonna Kristina, la quale a tratti sembra vivere in altri luoghi, in un altro tempo. Nel ritratto di questa donna tenace e forte, ma in tarda età fiaccata dalla malattia, l’autore adombra le insidie del proprio mestiere. La scrittura è il tentativo di gettare lo sguardo nelle cose trascorse, compito altrettanto insidioso quanto quello della bambina dai capelli rossi che aspira predire il futuro, saltata in aria su una mina.
La grande storia, minacciosa e imprevedibile, emerge nelle pieghe del quotidiano. Vite sull’orlo del baratro spiccano in tutta la propria autentica verità. Stanišić ha il dono di dare risalto alle piccole cose delle quali è intessuta l’esistenza. Come uno stregone, pone l’orecchio su vecchie foto per percepirne i sussurri. La Drina cantata da Ivo Andrić risalta nella sua realtà intessuta di leggende. I bisnonni del narratore subiscono il fascino ammaliante dell’acqua. Suljo lo zatteriere governa con enorme perizia, finché la costruzione di vari sbarramenti rende anacronistico il suo mestiere. Il nonno Muhamed, frenatore, viene mandato in pensione quando la linea ferroviaria tra Sarajevo e Višegrad viene dismessa. Vite improvvisamente rese inutili da mutamenti repentini e imponderabili. Muhamed riuscirà a raggiungere i parenti a Heidelberg, ma non imparerà mai la lingua. Nella stessa maniera lo zio attore si trova catapultato in un Paese straniero, nel quale l’unico mestiere concessogli è quello del clown, muto interprete delle proprie malinconie. È la vita dei profughi, perennemente esiliati, alla deriva fra una cabina telefonica e un venditore di kebab.
Stanišić riesce a rendere tangibile la fragilità di esistenze precarie, impegnate nel tentativo di guadagnare una nuova quotidianità. Eppure è consapevole di come siano cambiate le cose nel frattempo. “Se dovessimo fuggire ora, e se la situazione alle frontiere nel 1992 fosse stata restrittiva come lo è oggi alle frontiere esterne dell’Unione Europea, non raggiungeremmo mai Heidelberg. Il viaggio arriverebbe al capolinea davanti a una barriera di filo spinato ungherese”. La storia, con il suo insensato procedere, non è foriera di ammaestramenti. Guerre seguiteranno a esplodere, persone continueranno a fuggire, mentre gli ostacoli sul loro cammino si vanno moltiplicando. In questo senso il libro è anche un monito verso chi seguita a indirizzare i destini del mondo verso lidi sempre più perigliosi. La conclusione aperta, a metà fra le rivendicazioni libertarie del Cortázar di Rayuela e i labirintici percorsi dei giochi di ruolo, diviene metafora dell’intera narrazione, del suo frammentario dipanarsi alla ricerca dell’inafferrabile.