C’è una vita passata e un presente in Cane e contrabbasso, romanzo con il quale lo scrittore serbo Saša Ilić si è aggiudicato il premio Nin nel 2019, uno spartiacque coinciso con la disgregazione della Jugoslavia. “Tutti noi siamo stati qualcosa nella vita passata, non è così?”, dice il vecchio dottor Julius, le cui fattezze ricordano quelle iconiche dell’attore Max von Sydow, internato in un istituto di riabilitazione per veterani di guerra. Un seguace di Basaglia, artefice della chiusura dei manicomi e fautore della dignità di ogni individuo. Luogo iconico l’ospedale psichiatrico di Kovin, come il sanatorio nella Montagna incantata di Mann, simbolo di un percorso iniziatico che, attraverso la malattia, conduca a una sorta di redenzione. Non a caso il dottor Julius prende Dante come punto di riferimento della propria esperienza; non a caso i pazienti vengono coinvolti in uno spettacolo basato sul mozartiano Flauto magico.
La ribellione di Julius richiama alla mente quella di Randle Patrick McMurphy, incarnato da Jack Nicholson in Qualcuno volò sul nido del cuculo; una lotta vana, stroncata dalla disumana coercizione del manicomio. Filip Isaković, giovane marinaio durante le guerre balcaniche, è il protagonista del libro. In passato è stato un musicista, un contrabbassista jazz per la precisione, ma ha dimenticato come governare il proprio strumento. Il legame che ancora lo vincola al contrabbasso è divenuto fittizio, vacuo come la sua vita. A venti anni di distanza dalla conclusione del conflitto, Filip deve curare le proprie ferite interiori.
La musica jazz è un basso continuo alla narrazione, una guida strutturale; temi vengono accennati e ripresi, in un andamento erratico tipico del genere che simboleggia un anelito libertario. Riecheggiando modelli filmici, a conclusione del libro l’autore indica la soundtrack, la colonna sonora della narrazione. L’ombra di una società sottoposta al controllo capillare balena nelle rievocazioni degli interrogatori, che richiamano simili colloqui fra i pazienti e i medici dell’istituto.
Trattamenti traumatici, come la cura Ludovico in Arancia meccanica, si pongono quali modelli perversi di rieducazione. Farmaci sperimentali e privazione della libertà intorpidiscono le menti. L’obiettivo è l’oblio, la cancellazione dei ricordi. Contro questa strategia lo scrittore si ribella apertamente. Non c’è catarsi possibile nel mondo delineato da Ilić, ma raccontare è comunque necessario. Il timore di essere ascoltati resta nelle menti come un morbo. Una serie tv dal titolo Gente felice appare come un ironico riflesso del Paese, intorpidito da vane risate prima di varcare il precipizio. Le figure del presidente e di Lady M., Slobodan Milošević e consorte, compaiono come messaggeri della storia di strepito e furore narrata da Shakespeare, protagonisti di un incubo dal quale è difficile destarsi.
Ampia la messe di titoli che, negli ultimi anni, gettano nuova luce sulle guerre jugoslave; come se gli scrittori avessero trovato solo ora il coraggio di dire l’indicibile. Il libro di Ilić è fra questi; si erge come un faro che orienta i naviganti in un paesaggio impervio, un punto di riferimento per le epocali migrazioni alle quali ci ha abituati il nostro tempo, funestato da guerre e tragedie che non sembrano avere fine. Forse era necessaria una certa distanza per raccontare esperienze terribili, come se il tempo trascorso da quei tragici eventi avesse finalmente aperto le sue coltri oscure, nelle quali gettare uno sguardo lucido e pregno di significato.