Racconto lungo o romanzo breve che sia, The Sound of His Horn (1952) occupa un posto speciale tra le ucronie distopiche della Germania nazista. Se Swastika Night (1937) di Katharine Burdekin indagava, “avant la guerre”, il significato della mitopoiesi nella società nazionalsocialista, se Philip K. Dick (The Man in the High Castle), e poi Philip Roth (The Plot Against America), hanno immaginato la nazistificazione della società americana, Il richiamo del corno sceglie di raccontare il nazismo vittorioso restringendo il campo al suo habitat agiografico più “naturale”: un tenebroso castello nel cuore della Germania Orientale, riserva di caccia del Gran Maestro delle Foreste del Reich, il Conte Johann von Hackelberg.
Siamo nell’anno 103 dell’era nazista, il protagonista – un militare inglese evaso da un campo di prigionia nel ’43 – si risveglia sorprendentemente un secolo dopo nel letto di un lindo ospedale psichiatrico annesso alla riserva, nel cuore della foresta. La maniacale ossessione teutonica per la perfezione del dettaglio, che pervade l’universo folle e concentrazionario di Von Hackelberg, appare, agli occhi dell’inglese, la più persuasiva conferma del trionfo nazista e della disfatta degli Alleati.
Il romanzo, pubblicato per la prima volta in Gran Bretagna nel dopoguerra, passò inosservato fino a quando, nel 1960, uscì negli Stati Uniti in una collana pulp, con l’illustrazione di bionde prede femminili in copertina. Fu il primo e anche l’unico successo del suo autore, John William Wall, in arte Sarban, diplomatico di carriera inglese e scrittore occasionale, pare non molto convinto dei suoi mezzi artistici. A scoprirlo e sostenerlo con grande convinzione fu invece l’editore Peter Llewelyn Davies, l’uomo che da bambino ispirò a J. M. Barrie la figura e il nome di Peter Pan. Sarà che The Sound of His Horn – il titolo si richiama al verso di un’antica ballata – guarda al nazismo da una prospettiva fantasy moderna, mostrandolo non tanto per i suoi esiti immaginari sulla condizione del mondo quanto per le sue disumane, e non meno reali, premesse fantastiche. Con una prosa ancora largamente godibile, il racconto coglie l’immaginario nazista nella sua posa pervert più compiaciuta: il dirottamento della modernità mascherato da culto “aristocratico” e feticistico per la Natura e la Tradizione.
Il mondo di Von Hackelberg trova immediata rappresentazione nella gerarchia dei generi e dei corpi: se i notabili possono nascondere dietro all’arroganza baldanzosa pinguedini alla Goering, ufficialetti e infermiere devono incarnare fino alla compiutezza lo stereotipo ariano. Alla base della piramide la manovalanza delle razze impure, eugeneticamente modificate per lo scopo della servitù, tanto abbondante che si può rinunciare per la pulizia degli uffici all’ausilio dei moderni elettrodomestici. Trasformati in prede umane dalle sembianze di uccelli, i corpi femminili sono adibiti alla cacciagione, l’attrazione riservata a politici di passaggio e ospiti di riguardo, o mutati nella morfologia di feroci donne-gatto. Selezionati, allevati, travestiti o trasformati chirurgicamente, i corpi in gabbia appaiono non solo disumanizzati ma animalizzati, seppure in misura diversa, in funzione dello spettacolo. Al vertice della piramide Von Hackelberg realizza a sua volta questa ferinità ma nei termini antitetici del suo dominio assoluto su tutto: il nazista alfa è qui Führer e belva allo stesso tempo.
Dopo il successo americano, Hollywood si assicurò i diritti cinematografici della novella ma, curiosamente, non ne venne mai tratto un film. Ciò malgrado decine di pellicole e di serie tv negli ultimi anni (Running Man, Hard Target, Battle Royale, The Hunt, Squid Game sono solo i primi titoli che vengono in mente) hanno riproposto il tema della caccia alla preda umana come ultimo gioco di ricchi e privilegiati – e possano considerarsi a vario titolo suoi debitori.