“Ma come fui terrorizzato quando vidi me stesso in una pozza trasparente! All’inizio sobbalzai, incapace di credere che ero veramente io quello riflesso nello specchio…” La citazione dal Frankenstein di Mary Shelley è il motto con cui si apre la storia narrata da Sarah Blau, israeliana, classe 1973, all’esordio nel nostro paese con questo romanzo del 2007: e sono parole che mettono in moto davvero un gioco di specchi, di immagini e di voci che si moltiplicano, leggermente distorte, fino a modificare la realtà che riflettono e a renderla vertiginosa e irriconoscibile. A partire da quella narrante: una prima persona singolare che scivola spesso nella seconda e nella terza, a segnare il rifrangersi incessante in frammenti sempre più incontrollabili, sempre più incomprensibili, della personalità della protagonista: Telma, trent’anni, una tradizionalissima famiglia ebrea che la soffoca in un cappio inestricabile di deprimenti doveri e di acidi affetti, insegnante di storia nel liceo femminile di un’imprecisata cittadina israeliana, non per vocazione ma, come afferma lei stessa per “lo squallido tentativo da parte mia di congelare il tempo restando in un contesto familiare, protetto”.
Groviglio esemplare di contraddizioni, insoddisfatta di sé, del proprio corpo che sente amorfo all’esterno, putrescente all’interno, desiderante eppure mai desiderato, Telma proietta la sua intelligenza e il suo disprezzo del mondo e degli altri nella costruzione di un corpo perfetto. È, il suo, il progetto per eccellenza della cultura alla quale appartiene, quello del golem, la creatura artificiale, che fin dalla prima immagine frankensteiniana del romanzo si ricollega a ciò che questa configurazione mitica implica e dichiara, sia pure con riluttanza: il riflesso di sé nello specchio. E lo specchio nel romanzo diviene presenza ricorrente oltre che tecnica narrativa: l’autrice fa sì che la sua protagonista si guardi, si osservi di continuo fino a straniarsi e a cogliere ciò che sta sotto l’immagine, dentro di lei:
“Guardo quel naso e sorrido. Il sorriso lo fa sembrare più grosso, così riporto le labbra nella loro postura naturale: serrate. Sembrano una coppia di piccole lumache rosa senza guscio, sedute a riposare sul mento, quella di sotto è più grassottella, quella superiore sottile e secca. Dietro c’è nascosta la mia lingua, così brava a raccontare bugie”.
Il bisogno di trasgressione di Telma, l’insofferenza per una vita che le sta stretta, la spingono a modellare se stessa sul monumento di famiglia, su quella nonna Gerta che ha guidato l’insurrezione del ghetto di Varsavia nel 1943 e di cui si celebra il funerale all’inizio del romanzo. Ma ispirarsi a Gerta significa anche condividerne il segreto più inconfessabile, mettere in moto le forze occulte che trasformarono quella rivolta lontana in una catena inarrestabile di distruzione e di lutti. Ritorna l’immagine dello specchio: come Telma si rispecchia in Gerta, così in Gerta si rispecchia un orrore che ha luogo nella storia, l’Olocausto, contro il quale quella donna coraggiosa ha creduto di poter opporre resistenza facendo ricorso a un patrimonio mitico sospeso al di fuori dalla storia stessa. Le forze demoniache, tuttavia, che vengono suscitate anche contro la cieca barbarie nazista, anche contro l’insensatezza ingiusta della vita di Telma, richiedono la loro controparte, pretendono un prezzo tremendo: e così, negli occhi vuoti della creatura alla quale Telma dà vita – Shaul il suo nome, “il desiderato” – vi è il riflesso opaco dell’abisso che dilaga nel mondo e nel quale tutto alla fine precipita.
Tradotto da Elena Loewenthal con una competenza che non è mai fredda e ne rivela l’intimo coinvolgimento, quello di Sarah Blau è un romanzo che spiazza e coinvolge; il suo è un realismo autoflagellante e impietoso, innervato di slanci fantastici verso un mondo arcano e misterioso, visibile appena dietro la superficie dell’apparenza. È alle sue sottili distorsioni, alle sue difformità che dobbiamo guardare per comprendere davvero il senso di quella che chiamiamo realtà. Il golem, come Frankenstein, a poco a poco prende il sopravvento sulla sua creatrice, non con la forza (anche con la forza), ma rendendosi indispensabile, attirandola nel suo incantesimo di un’onnipotenza che altro non è se non proiezione, narcisismo, ancora una volta specchio: di un sé privo di limitazioni fisiche o morali, illusoriamente trionfante. Finché l’immagine riflessa non cancella il suo pallido modello e si sostituisce a esso, perdendosi e perdendolo.