Verrebbe da pensare alla giurisprudenza e alla letteratura come a due ambiti, se non proprio opposti, che quantomeno non hanno molto da dire l’uno all’altro: formale e tecnico – e, diciamolo, un po’ “grigio” – il primo, creativo e immaginifico il secondo. E se la letteratura ha sempre avuto il potere precipuo di dare rappresentazione a realtà storiche e sociali, svelandone nuovi significati nei suoi mondi alla rovescia o addentrandosi nelle profondità del rapporto fra i personaggi e l’ambiente che li circonda, assegnarle il compito di dare un quadro narrativo – o lirico – di un apparato legislativo sembra compito ben più arduo. Ma è proprio questo che rende interessante la scommessa di Sara D’Attoma, che in Fiori di pioppo al vento si propone di raccontare la legislazione cinese in materia di rapporti matrimoniali e violenza domestica a partire dal “punto di osservazione insolito” della narrativa e della poesia.
L’impresa non è semplice, poiché vi si annida il rischio di elencare meccanicamente le “apparizioni letterarie” di determinate leggi, mentre la vera sfida è cogliere cosa può aggiungere uno sguardo prettamente letterario a questa presentazione altrimenti solo didascalica. Proprio qui sta il pregio del libro di D’Attoma. Agile e snello, persino umoristico, scritto più con l’aplomb leggero della narratrice appassionata che con le inflessibili rigidità della giurista, Fiori di pioppo al vento, dopo la prefazione di Renzo Cavalieri e un’introduzione programmatica dal titolo “Donne e diritto”, si articola su quattro capitoli, ciascuno dedicato a un ruolo femminile: “La concubina”, “La vittima”, “La (ex) moglie”, “Madre e figlia”. Su questa base, l’autrice estrae figure emblematiche dalle opere della letteratura cinese contemporanea, leggendone le vicende e usandole come spunti per interrogarsi su quanto le loro azioni all’interno delle trame fossero influenzate dai limiti legali esistenti al tempo delle storie. Quanti diritti avevano, per esempio, le concubine del capolavoro di Su Tong, Mogli e concubine? E la moglie ufficiale del patriarca della storia avrebbe potuto contemplare il divorzio? Quali appigli legali avrebbe avuto la protagonista de La moglie del macellaio di Li Ang, che non trova altro modo di difendersi dalle violenze del marito se non uccidendolo, e venendo a sua volta condannata a morte? Che tutele proteggono una giovane madre come quella descritta da Ma Jian ne La via oscura, stretta fra il controllo delle nascite e la pressione del marito affinché partorisca un maschio dopo più tentativi falliti?
Per altro, pur trattandosi di autrici e autori contemporanei, l’ambientazione delle storie in periodi precedenti l’epoca più recente consente al viaggio proposto da D’Attoma di allontanarsi nel tempo, per esempio indagando la legislazione in vigore nel tardo periodo Qing, l’ultima dinastia imperiale rovesciata dalla rivoluzione repubblicana nel 1911, o quella in vigore a Taiwan, oltre al diritto presente nella Repubblica popolare cinese di ieri e di oggi. Il libro tematizza inoltre una seconda domanda, a sua volta chiave: quanto è cinese questa oppressione? Una delle conclusioni a cui giunge è che la donna, quando è vittima, lo è prima di tutto di strutture sociali quasi connaturate, che la dissuadono persino dal rivolgersi alle autorità. Non basta che una legge sia scritta per avere valore. Come nota la potentissima citazione di apertura, tratta dalla lavoratrice migrante e scrittrice amatoriale Meng Yu: “Quanti hanno spogliato le donne dei diritti che appartengono loro agitando la bandiera dell’‘amore’?”. E quindi, a somma di quanto detto sin qui, una profonda suggestione giunta dalla lettura è che la creazione letteraria ha anche il merito di sviluppare un linguaggio comune – al netto dei diversi idiomi – per far emergere queste storie dal “pozzo” (per usare un topos dell’oppressione femminile richiamato più volte) dei diritti, della comprensione, del soccorso.