Nonostante le sue alterne e contrastate vicende, l’antifascismo ha sempre mantenuto la sua egemonia nelle istituzioni italiane da quando hanno abbandonato la configurazione monarchica per divenire repubblicane. Governi di destra, non esenti da propensioni estreme, sono già più volte e per tempo non trascurabile comparsi sulla nostra scena pubblica – si pensi solo al (quasi) ventennio berlusconiano. Ma ora ogni limite pare saltato. Ecco infatti comparire sugli scanni ministeriali un personale politico, il quale, per quante moine moderatrici esibisca, restaura chiaramente i modi di pensare e agire tipici della tradizione fascista e neofascista. Settant’anni e più di antifascismo paiono dunque dovere scontare la più grande sconfitta mai subita. Contrariamente a chi minimizza questo fatto, non è da escludere che ne consegua una disfatta irrecuperabile. Tutto dipenderà da come la stessa tradizione antifascista sarà ripensata e rielaborata anche autocriticamente. Grande ispirazione a questo scopo può venire dal recente raccolta di scritti di Santo Peli dal titolo La necessità, il caso, l’utopia. Saggi sulla guerra partigiana e dintorni, pubblicata col patrocinio del Centro Studi Movimenti di Parma.
Tema centrale è qui, evidentemente, una delle fonti prime di ogni riflessione antifascista, ossia la Resistenza o meglio l’esperienza partigiana dispiegatasi nel nostro paese tra il 1943 e il 1945. Per cogliere l’interesse che questa raccolta di saggi, già pubblicati da Peli a partire dal 2016, è opportuno intenderla come ulteriore passo di un’opera con cui l’autore ha sempre proficuamente cercato di smarcarsi dai luoghi comuni più triti e sterili. Tra i tanti si pensi, ad esempio, all’abusato slogan istituzionale secondo cui la Costituzione repubblicana sarebbe figlia delle Resistenza, e all’altrettanto abusato slogan – questo piuttosto tipico della sinistra più estrema – secondo cui la Resistenza, nella sua potenzialità rivoluzionaria, sarebbe invece stata tradita nel corso della ricostruzione repubblicana. Di fronte a entrambi questi miti inconsistenti gli studi di Peli hanno una portata definitiva per la ricerca di un’altra via metodologica e politica.
Nel primo dei saggi contenuti in questa raccolta che le dà titolo, il focus è sui fraintendimenti causati dalla intenzione retrospettiva volta a riconoscere nella Resistenza i germi anticipatrici di quella che sarà la Repubblica italiana. Il tema storico trattato è quello delle cosiddette “zone liberate” dai partigiani tra l’autunno e l’inverno del 1944, ma in seguito necessariamente abbandonate (Val d’Ossola, Alba, Montefiorino Langhe, Monferrato, Varzi, Bobbio, Carnia, Friuli orientale e così via). La critica di Peli, sempre documentata e bene mirata, punta a denunciare tutte le omissioni comportate dalla presunta continuità tra l’esperienza di queste “Zone liberate” e quella che sarà la storia della repubblica costituzionale: ossia la continuità che è stata stabilita dalla denominazione enfatica di queste “zone” addirittura come “repubbliche” (“repubbliche partigiane”) seppur in fieri. Senza temere di far vacillare questa certezza, che è uno dei pilastri delle retorica resistenziale, Peli evidenzia tutte le carenze (già note alla storiografia più accorta [1], ma non certo di dominio pubblico) di queste repubbliche supposte tali solo a posteriori. Tra queste carenze è segnalato quanto la scelta di impiantarsi stabilmente in un territorio, pur essendo a volte dettata da circostanze del tutto particolari, contraddicesse quella mobilità, quella tattica del mordi e fuggi, del non accettare mai battaglie frontali, che è tipica di ogni guerriglia e che è stata per ciò prevalentemente adottata dagli stessi partigiani italiani. D’altra parte, Peli ricorda anche la scarsa organizzazione amministrativa di cui i partigiani diedero prova nel breve lasso di tempo nel quale dovettero far fronte ai problemi quotidiani di vaste popolazioni di civili inermi. Popolazioni che proprio per ciò in simili casi dimostrarono di apprezzare la stessa presenza dei partigiani molto meno di quanto non attestato in infiniti altri casi.
Un altro saggio riportato in questa raccolta fa presente l’importanza del fenomeno a cui Peli ha dedicato una monografia decisiva: Storia di Gap. Terrorismo urbano e Resistenza, Einaudi, 2014); un’importanza pari almeno alla disattenzione di cui questo fenomeno è stato in seguito prevalentemente oggetto: a causa evidentemente dell’imbarazzo del dovere riconoscere in tempi repubblicani che tattiche d’attacco, in stile terroristico, lungi dall’essere bandite dalla Resistenza, ne erano state componente non trascurabile. Tanto non trascurabile che in barba alla disattenzione riservata al fenomeno dei Gap (Gruppi di Azione Partigiana) in tempi repubblicani, tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta il libro Senza tregua di Giovanni Pesce (uno dei più noti gappisti) ha conosciuto un successo bisogna proprio dire eccezionale, specie tra le generazioni protagoniste del lungo ’68. Il Perché e con quali conseguenze sono in effetti le domande che Peli si pone in uno dei più stimolanti saggi di questa raccolta.
Tra gli altri temi da essa affrontata ci sono la travagliata e contraddittoria esistenza politica del Pci prima, durante e dopo la Resistenza, il destino non felice dei partigiani nel dopoguerra, le diverse fasi del dibattito e della memoria loro riguardante. Ma la questione forse più proficua Peli la solleva quando sottolinea l’importanza di studiare in termini antropologici – dunque dall’interno, a partire dalle testimonianze e gli scritti sul loro “vissuto” – la loro intera esperienza. Così in effetti si potrebbe dare la consistenza che merita all’enunciato enigmatico, ma simbolicamente decisivo, di Fenoglio, quando ne Il partigiano Johnny dice “partigiano è parola assoluta, come poeta”.
Altrimenti detto, si potrebbe approfondire la visione dell’esperienza partigiana come esperienza politica singolare, per bande. Cioè parallela ma non veramente convergente rispetto a quella concomitante, e alla fin fine vincente, dei partiti; di quei partiti che si occuperanno di ricostruire lo stato italiano non disdegnando tante, troppe, continuità col ventennio fascista.
[1] A questo proposito riferimento privilegiato di Peli è Legnani M., Politica e amministrazione nelle repubbliche partigiane. Studio e documenti, Insmli, Milano, 1967, ma anche il più recente Ganapini L., Rileggere la storiografia sulle repubbliche partigiane in La repubblica partigiana della Carnia e dell’Alto Friuli. Una lotta per la libertà e la democrazia (a cura di Buvoli, Corni, Ganapini, Zannini), Il Mulino, 2013.