Santa Canaglia. Pensare la rivolta  

La contraddizione principale che attanaglia l’esistenza dei giovani delle banlieues non è la retorica del razzismo che avvelenerebbe la vita dei banlieuesards ma quella tra capitale e lavoro. Questa partita giocata sul terreno dei rapporti di forza tra comando capitalistico e nuova classe operaia è il tema de 'La santa canaglia' di Atanasio Bugliari Goggia e del suo libro precedente 'Rosso banlieue' editi da Ombre Corte.

E tra ‘l fuoco e tra il fumo e le faville  

E ‘l grandinar de la rovente scaglia  

Ti gettasti feroce in mezzo a i mille,

 Santa canaglia[1]

Carducci racconta che a suggerirgli l’espressione «santa canaglia» fu un deputato del Parlamento italiano quando, a proposito dello sciopero politico bolognese del 1868, disse che era la canaglia che tirava sassi, non il popolo. Un’opposizione enfatica, questa di popolo e canaglia, utile a bollare d’infamia ogni sollevazione, insorgenza, moto dal basso perché privi di legalità concettuale. La santa canaglia di Atanasio Bugliari Goggia[2] fa giustizia di questo stucchevole refrain che ascoltiamo a sinistra come a destra da sempre. Levellers e diggers, motley crew, sans-culottes e cafoni hanno nominato di volta in volta, a seconda del luogo e del tempo, la «santa canaglia». Per la sua racaille Bugliari Goggia  ha scelto il nome comune di banlieuesards e tra questi i giovani e giovanissimi che nelle ultime rivolte non solo hanno tirato sassi ma hanno incendiato agenzie interinali, municipi, banche, commissariati, scuole, supermercati, negozi di ogni sorta e auto di ogni tipo. Sono loro la nuova classe operaia delle banlieues[3]. Che non va confusa col lumpenproletariat tagliato fuori dal lavoro produttivo di plusvalore ma neppure con quella fetta di precariato impegnata nei settori di produzione più intellettualizzati e “ben fornito in termini di risorse familiari e capacità cognitive”. Questi giovani banlieuesards, di cui si enfatizza qui un’esistenza vissuta all’insegna della precarietà e della “povertà  laboriosa”, ci ricordano piuttosto il nostro proletariato giovanile  alle prese con la nascente fabbrica diffusa dei primi anni Settanta.

Privi come sono del sostegno della famiglia e dello Stato, neanche una buona scolarizzazione riesce a riscattarli sicché la loro condizione di classe, che nessuno di loro ha scelto e da cui è difficile uscire, appare irredimibile ai loro stessi occhi. Dalla fabbrica fordista era possibile fuggire, dalla fabbrica sociale che è la banlieue, no. In essa il lavoro operaio si è esteso e precarizzato e i giovani banlieuesards ne sono il prodotto. Ma l’idea della banlieue come una gabbia d’acciaio che tutti li racchiude tranquillitate et securitate animi è sbagliata perché i giovani banlieuesards non sono addomesticabili. A tenerli a bada non basta la frusta dei dispositivi disciplinari e neppure la strategia discriminatoria tra «buoni» e «cattivi», tra soggetti produttivi e soggetti pericolosi e a rischio e neanche funziona più il combinato di precarietà lavorativa, insicurezza sociale e sicurezza poliziesca. Gli è che il banlieuesard, soprattutto se giovane, non conosce “la solitudine del cittadino globale” che vive e lavora nella cité. Dalla sua ha la solidarietà dei più perché nella banlieue tutti si vive la stessa condizione di marginalità, di sfruttamento e di povertà. Contro questa solidarietà di classe nulla può evidentemente l’armamentario che Stato e padroni mettono in campo. Soprattutto non funziona – se mai ha funzionato – la retorica del razzismo che avvelenerebbe la vita dei banlieuesards. Mitterrand ne era stato lo sponsor ufficiale con la «Marcia per l’uguaglianza e contro il razzismo» dell’’83 e si è visto com’è finita. La contraddizione principale che attanaglia l’esistenza dei giovani delle banlieues è un’altra, quella tra capitale e lavoro. Questa partita giocata sul terreno dei rapporti di forza tra comando capitalistico e nuova classe operaia è il tema de La santa canaglia.

Se n’è mai parlato? Almeno a scorrere la letteratura sull’argomento e salvo poche eccezioni, poco e male e sempre per una grave carenza di metodo.

Perché non è facile parlarne se non si entra nella loro testa, dei banlieuesards intendo. Giovani e meno giovani. Cosa che Bugliari Goggia ha fatto. Etnografia di militanti politici di banlieue, recita il sottotitolo. Che significa che solo il suo inserimento nelle banlieues di Clichy-sous-Bois e Aulnay-sous-Bois, la relazione coltivata nel tempo con i giovani rivoltosi, la condivisione politica con i militanti del movimento hanno fatto sì che fosse riconosciuto come uno di loro, un frère de cœur. Sì, la banlieue come le isole Trobriand per Malinowski e la émeute, la rivolta, come il cerimoniale kula del suo Argonauti del Pacifico occidentale (1922). E infatti gli elementi del metodo etnografico ci sono tutti – osservazione partecipante, accoglimento del punto di vista dell’altro, giusta empatia – e, in felice commistione, il metodo della conricerca, questo sì “strumento utile a connotare la ricerca scientifica come prassi politica”. Con la conricerca l’approccio con l’Altro ovviamente cambia.

Fedele ai fatti e indipendente dal sentimento, recita la deontologia dell’approccio etnografico il che ha sempre significato che la distanza tra ricercatore e narratore era d’obbligo perché i ruoli sono quelli e vanno rispettati. C’è chi indaga e chi ha diritto alla parola e però alla verità. La conricerca confonde i ruoli non in base a una ricetta astratta e precostituita bensì nella concretezza di un percorso e di un agire reali[4]. Nel caso di Bugliari Goggia, “la militanza, tanto da ricercatore che da attivista politico di banlieue, [ha assunto] i tratti di una scelta di vita definitiva” .

Forte di questa condizione e prima di dare la parola ai banlieuesards che le rivolte le hanno fatte,  passa in rassegna la variegata letteratura sul tema. A parlare sono sociologi di varie scuole di pensiero sicché gli spunti teorici per capire le rivolte delle banlieues sono tanti e tutti legittimati da una qualche ricerca a monte, ognuna delle quali, come possiamo immaginare, è alle motivazioni che stanno dietro le rivolte che punta. Spiegate le quali, soddisfatto il redde rationem, la faccenda è chiusa. Trama, soggetti narrativi e verità del racconto sono prodotti loro e di nessun altro. Hanno indagato, hanno fatto quanto dovevano, possono anche voltare pagina.

Ma le rivolte?  Solo fuochi fatui. E i banlieuesards che vi partecipano? Solo idealtipi di lumpen e lumpenproletariat in particolare se di origine maghrebina e subsahariana. E vite marginali e di strada le loro, di spaccio e piccola delinquenza, da cui nulla di buono potrà uscire se non la rivolta cieca e sorda. Per l’appunto.

Non è così, si diceva, per il nostro co-ricercatore militante. La sua è un’inchiesta condotta in prima persona direttamente sul campo. Per comprendere la banlieue Bugliari Goggia ha avuto bisogno di tempo e dentro questo tempo ha dovuto procedere a un sano outing, soprattutto ha dovuto liberarsi di un bel po’ di pregiudizi circa le rivolte e gli émeutiers. Ma solamente il suo essere un compagno e un militante di banlieue gli ha permesso il riconoscimento e l’accettazione come ricercatore. Che poi la conoscenza dell’opera di Alquati presso i militanti più anziani e il prestigio degli esuli politici in Francia abbiano fatto il resto, anche questo non è un’altra storia.

Solamente la scelta di dare la parola direttamente ai rivoltosi – qui ai protagonisti del ciclo di émeutes del 2005 – avrebbe potuto fare giustizia di una siffatta supponenza. A distanza di più di quindici anni ai suoi occhi sono i soli a poter testimoniare di quei fatti. A garantire per la loro memoria, una lunga militanza in gruppi organizzati, a rinverdirla per noi, le giornate di giugno-luglio di quest’anno. Tra quel ieri e quest’oggi un formidabile ciclo di lotte sociali: contro la riforma del Cpe (2006), contro la Loi Travail (2016), contro l’aumento del prezzo della benzina (2018), contro la riforma della scuola (2019), contro la riforma delle pensioni (2023). Sì, ad accompagnare il do di petto delle banlieues un basso continuo suonato da grandi movimenti nelle cités di mezzo Paese, con pause e qualche acuto come nel caso dei gilets jaunes. Altra musica non si è sentita in Francia dopo i grandi scioperi operai del 1995. Per Bugliari Goggia le partiture invece sono due, non una: eseguita, la prima, dai movimenti bianchi di città, la seconda dai militanti e dagli abitanti delle banlieues. Impossibile per il momento ri-comporle in unità.

La rivolta non è lo sciopero – forma di lotta tutta operaia – che ha i suoi obiettivi specifici, una sua controparte che quegli obiettivi può accogliere o respingere, una sua modalità di essere e dinamiche proprie. E neppure è l’insurrezione, preludio alla rivoluzione. Sciopero e insurrezione nel Novecento qualche volta hanno fatto coppia, ora non più anche se qualcuno ci torna sopra con un’idea di “classe media impoverita”[5] profilo operaio. Ché di un soggetto forte e ben organizzato hanno bisogno sciopero insurrezione rivoluzione, assenti nel saggio. Vi troneggia invece la «rivolta», nome e destino per l’Autore. La tesi è forte: la rivolta delle banlieues che assurge a “modello di rivolta del domani”! Non siamo al De profundis della rivoluzione?

La rivolta cui qui si fa riferimento evidentemente è quella del 2005, costruita a partire dalle condizioni materiali di quelle banlieues che i giovani banlieuesards a un certo momento non hanno più accettato di subire.

Ma perché prototipo di rivolte a-venire se altre rivolte da allora sono seguite in giro per il mondo e pure di ciclo di rivolte si parla a proposito degli ultimi tredici anni? Cos’ha essa di speciale che le altre non hanno? Forse perché il modello offertoci è di genere particolare, accogliendo di buon grado proprio quelle interferenze e quei fattori di disturbo solitamente esclusi dalla ricerca? Se ne accennava ma qui vale insistere proprio sull’osservazione sistematica delle banlieues assegnata direttamente ai suoi militanti politici. Il fatto che siano gli émeutiers a parlare di rivolta e a spiegarla, ha degli effetti su chi legge. Sicché questa presa di parola e la verità di parte che essa produce sono musica per le orecchie del lettore che noi siamo, al punto di fargli immaginare con gli occhi della mente quella stessa rivolta nel suo concreto svolgimento.

Ma siccome non di sola partecipazione emotiva si tratta, rieccoci al dunque: perché un modello per la rivolta? È codificabile in un qualche modo la rivolta? Domande legittime se pensiamo alla storia delle rivoluzioni del ’900 e al danno che a quella storia ha arrecato l’idea di modello. Il sospetto è che anche in questo caso il ragionamento sia lo stesso. Assunto che la banlieue sia la nuova forma di fabbrica sociale e i banlieuesards la nuova classe operaia che non solo sa della propria posizione sociale ma è approdata “a una reale consapevolezza politica” (la classe in sé e la classe per sé di Marx) e che entrambi, banlieue e banlieuesards, parlino di noi (ricordiamo tutti quel fabula de te narratur di Marx), il ricorso qui all’idea di modello non meraviglia più di tanto. Che in questo ragionamento il retaggio del pensiero della rivoluzione sia ancora prevalente lo notiamo infine dalla fiducia che Bugliari Goggia ripone nella figura del militante. La rivolta gli deve tutto. È lui che trasmette il sapere delle lotte ai giovani banlieuesards e plasma la loro coscienza politica ed è sempre lui con la  sua vita e il suo operato a permettere che la rivolta sia la contingenza fondamentale della loro esistenza. Bugliari Goggia ne è convinto: il militante accompagna la rivolta in tutte le sue fasi. In sua assenza la rivolta sarebbe effimera, solo un evento improvviso nel tempo o un’arte senza opere[6] come ai più sono sembrate le rivolte in giro per il mondo nel secondo decennio del nuovo secolo.

Immagino la delusione di quanti speravano in un linguaggio nuovo per dire la rivolta. Sul cammino che La santa canaglia ci invita a percorrere troviamo più di una pietra d’inciampo. «Organizzazione», ad esempio. Quelle reali dei singoli movimenti, ognuna con “tratti esclusivi legati all’ideologia, alla solidarietà e alla provenienza di classe dei suoi membri”, e quella unica, pensabile solo con la maiuscola e da tutti agognata, a prefigurare l’avanguardia del proletariato delle banlieues.

Il linguaggio della rivoluzione dice dunque la rivolta. Per chi scrive un vero e proprio busillis.  Ma, si obietterà, l’autorità dimostrativa della ricerca sul campo conterà pure qualcosa? E, diciamo noi, la biografia politica del compagno con-ricercatore, no?

[1] Nel vigesimo anniversario dell’VIII agosto MDCCCXLVIII in G. Carducci, Giambi ed epodi, Libro I.

[2] A. Bugliari Goggia, La santa canaglia. Etnografia di militanti politici di banlieue, ombre corte, Verona 2023. Premessa indispensabile al saggio, soprattutto per una più facile comprensione del suo apparato concettuale, Rosso banlieue. Etnografia della nuova composizione di classe nelle periferie francesi del ’22.

[3] Rosso banlieue, cit., p. 94: “nuova poiché nuovo è l’ipersfruttamento e perché si tratta della prima generazione messa al lavoro in condizioni peggiori di quella precedente”.

[4] Sui due metodi Rosso banlieue, cit. Parte Seconda §3.

[5] T. Negri, Cronache francesi in Collettivo EuroNomade (a cura) manifestolibri, Roma 2019, p. 84.

[6] S. Zweig, Novella degli scacchi, Einaudi editore, Torino, 2015, p. 27.