Sandro Veronesi ha una presenza imponente, a vederlo dal vivo e da vicino: l’ho incontrato pochi giorni fa con altri blogger e giornalisti intorno al bellissimo tavolo intarsiato della sala riunioni de La nave di Teseo, per parlare del nuovo romanzo appena uscito. Ha anche una bella voce, con un accento toscano poco marcato e quindi elegante e musicale. Un accento che mi ricorda la mia infanzia, e soprattutto l’adolescenza. Correttamente, visto che Settembre nero è il racconto di un’adolescenza, interrotta all’inizio della sua fioritura e recuperata nel ricordo in età matura. Gigio Bellandi ha dodici anni quando la sua vita come la conosce viene spazzata via, e al suo posto se ne ricostruisce un’altra, che non cede alla nostalgia di quel che è perduto e che apprezza quello che comunque ha avuto. È un eroe normale Gigio, uno che si è salvato, è venuto a patti con le sue perdite, è riuscito a non colpevolizzare nessuno e persino a fare tesoro delle esperienze altrui, esercizio quanto mai impervio.
Anche al cuore di questo libro – ci dice più volte Veronesi – sta l’accettazione, il prendere i fatti della vita, che nessuno di noi sceglie, e dunque anche i peggiori – come appunto i fatti. Neutri. Se anche dei colpevoli ci sono, come spesso accade, non serve accanirsi nelle accuse o sperare e aspettare scuse o redenzioni o riparazioni. L’accettazione è un percorso che parte dallo stato delle cose: se il nostro giardino è stato devastato, chiunque l’abbia devastato e per qualunque ragione lo abbia fatto, noi non possiamo che partire dalle rovine. Dalle rovine si può ricostruire, come una foresta dopo un incendio sa cercare i frammenti di vita rimasti sotto la cenere e usare quella stessa cenere per nutrire una nuova fioritura. L’accettazione è un’elevazione, perché non si abbassa alle conseguenze come se parlassimo di una sconfitta, ma ci porta verso la salvezza, e salvare una vita, soprattutto la propria, è un atto dovuto, sacro.
Questo romanzo, che Veronesi ci dice essergli “saltato addosso” mentre viaggiava in macchina, già tutto completo di storia e personaggi e voce, lui ha solo dovuto cercargli la struttura entro cui inserire il racconto, tradotto dalla mente alla parola scritta. E guarda caso anche quella struttura l’ha trovata senza cercarla. Perché tutti gli anni lo scrittore tiene la stessa lezione (cambia il pubblico, quindi la lezione si può ripetere) a partire da I morti di James Joyce. I morti è un racconto perfetto, diviso in otto parti, in cui per sette ottavi si racconta di vivi: feste, baldoria, alcool, balli, cibo, divertimento, eccitazione, e nell’ultimo ottavo invece si racconta di un morto. E siccome i vivi non possono nulla contro i morti, il racconto si intitola I morti. Ma senza quei sette ottavi di vivi e di vita non si capirebbe la fine, non si capirebbe la storia.
Ora questa struttura in sette ottavi in cui è la parte finale a dare il senso al tutto, è quella di Settembre nero. In cui Gigio Ballandi, ora cinquantenne, ricostruisce i fatti avvenuti nell’estate dei suoi dodici anni. Lo fa con la voce, il passo e il linguaggio di un adulto, con grande precisione e grande attenzione ai segnali che aveva sentito ma non saputo cogliere, ai momenti importanti in cui il processo di crescita aveva subìto uno scatto o un’accelerazione. Lo fa con onestà, con una narrazione che è frutto di una ricerca su sé stesso, con l’impegno a eliminare tutte le manipolazioni del passato che la scrittura autorizza e quasi invita a fare, scegliendo una “oggettivizzazione della memoria” che restituisce alla scrittura la sua dignità di atto morale. Lo fa quindi ricordando le vergogne, le cattiverie e le meschinità oltre alle paure, e chiedendosi: ma avrei potuto io, facendo o dicendo qualcosa, o evitando di dire o fare qualcosa, cambiare il corso degli eventi? Forse sì o forse no, ma ne avrebbe comunque dovuto accettare le conseguenze. Che non è detto sarebbero state migliori. Avrebbero potuto anche essere peggiori.
Il racconto di Gigio Bellandi compone poi un romanzo storico sugli anni ’70: gli anni della plastica, dei mangiadischi, delle palline clic-clac; gli anni in cui una donna irlandese dalla pelle bianca e dai capelli rossi era esotica quanto un’etiope dalle treccine lucide, e sotto alla curiosità si celava il razzismo che sarebbe esploso anni dopo ma che covava già sotto la cenere. Un tempo in cui la musica era la strada più diretta per crescere e voler lasciare la famiglia e andarsene lontano a scoprire il mondo. Un tempo in cui si credeva che ci sarebbe stato un futuro migliore, ma che già con il Settembre nero del titolo stava per subire una clamorosa smentita. Infatti “Settembre nero” è il nome dell’organizzazione terroristica palestinese che, durante le Olimpiadi di Monaco nel 1972, rapì undici atleti israeliani e li ammazzò insieme a un poliziotto tedesco. Una storia terribile, che fa ancora più impressione a ricordarla oggi, con tutto quello che è successo negli anni in mezzo e soprattutto nell’ultimo anno. Aveva pensato di cambiarlo, il titolo, Veronesi. Ma poi gli è sembrato un atto politico, non cedere alla guerra, non arrendersi alla presenza della guerra.
È stata una conversazione molto bella e interessante, che ha arricchito la mia lettura del romanzo. Pur nulla sapendo dei sette ottavi, pagina dopo pagina raccoglievo gli indizi e mi chiedevo cosa mai era successo, e pagina dopo pagina venivo rimandata a più avanti. Fino a che sono arrivata all’orlo del baratro, e lì avrei voluto fermarmi – ma non si poteva più. Se non la conoscete, o non ve la ricordate, andate ad ascoltare Immigrant Song dei Led Zeppelin, e poi scaricatevi le parole. Nessuna nostalgia, come si è vivamente raccomandato Veronesi. Soltanto molta, molta bellezza.
Sandro Veronesi su Pulp Magazine