La difficoltà di inquadrare la situazione politica contemporanea è dimostrata dalla complessità e dai molteplici punti di vista che Guerra civile globale mette in campo per proporre un disegno del mondo e delle sue interconnessioni. Se c’è una cosa che il capitalismo neoliberista ha insegnato è che la sua volontà di dominio si esplica in una geografia globale che comprende l’intero pianeta e lo spazio che lo circonda. La fantascienza, invece, ci ha insegnato che si espanderà, appena sarà tecnicamente possibile, anche ad altri mondi, sempre mostrando la stessa faccia di ingiustizia e sfruttamento, cinismo e violenza. Gli interventi raccolti da Sandro Moiso offrono un’interessante ipotesi di lavoro, ovvero che dal basso – in situazioni di lotta molto diversificate e lontane – si possa intravedere l’insorgenza di uno stato di guerra civile a livello mondiale che tenta di opporsi al piano di sfruttamento altrettanto globale e che si sta evolvendo manifestando una serie di caratteristiche unitarie.
L’epidemia Covid-19, con le sue straordinarie contraddizioni, ha di fatto radicalizzato lo sviluppo di una fase del Capitale che era già in essere da alcuni anni. La caratteristica è quella di un arretramento generale dello stato dei diritti e delle condizioni di vita sia nel mondo occidentale sia altrove, nei paesi oggi sottoposti a livelli di sfruttamento umano e delle risorse primarie di un livello inedito. Ma a questa crescita folle che sta trasferendo ricchezze a gruppi sempre più ristretti ed elitari, e di conseguenza ha spinto la classe media verso un fenomeno diffuso di riproletarizzazione, colpisce in maniera violenta anche il cuore del Capitale, quegli Stati Uniti che vediamo travolti da una polarizzazione interna e da una crisi diffusa lungo tutti i livelli economici della nazione.
Le miriadi di lotte che in ogni parte del mondo si declinano su problematiche di carattere locale hanno in realtà il denominatore comune di un malessere che deriva dalle violazioni dei diritti fondamentali, dalla marginalizzazione provocata dai lavori precari saltuari e sottopagati, dal riemergere dello schiavismo, dallo sviluppo di sistemi di sorveglianza e di polizia anche a carattere privato, dalla repressione di migranti e poveri, dalla persecuzione degli attivisti. Se nel secolo scorso la prospettiva del socialismo internazionalista aveva sintonizzato a un livello “alto” e riconoscibile – all’interno di una strategia mondiale – ogni tipo di lotta locale, il nuovo paradigma richiede un elevato sforzo di conoscenza dello stato delle lotte per comprendere di non essere soli ma elementi di una spinta generale di ribaltamento del potere. In realtà le giornate di contrasto contro il G8 di Genova, nel 2001, avevano rappresentato proprio l’atto politico di riconoscimento reciproco di una serie di lotte solo apparentemente locali e che erano in procinto di costruire un movimento mondiale dal basso di origine molto eterogenea. La violenza che si è scatenata contro quel movimento ha avuto, oltre al libero sfogo di frange fasciste istituzionalizzate, il ruolo strategico di impedire la coesione dei movimenti e spingerli a una rilocalizzazione e particolarizzazione. Guerra civile globale è quindi un diario fedele e inedito di questo processo contemporaneo di ricomposizione di classe che tenta di costruire il movimento globale che si oppone al capitalismo globale.
Questo processo politico, che oggi si costituisce in un incessante succedersi di rivolte, viene evidentemente contrastato dal generale inasprimento delle legislazioni nazionali che si sono strutturate attraverso provvedimenti che perseguono ogni posizione politica (anche nonviolenta o di mera opinione) con pene spropositate. Guerra civile globale offre una analisi di come una serie di rivolte contemporanee posseggano alcuni fondamentali elementi comuni capaci di superare la più immediata classificazione di populismo e localismo, analizzando come l’insicurezza esistenziale provocata dai nuovi meccanismi produttivi debba essere interpretata come una lotta anticapitalista e potenzialmente collettiva e solidale. Ed è proprio l’intervento di Raffaele Sciortino, “Crisi pandemica e neopopulismo”, che scopre come la crisi prodotta dalla pandemia costituisca la prima vera crisi globale, con inevitabile scontro tra tendenze di ri-nazionalizzazione e governi-azienda imperialisti e sovranazionali; e ancora come la pandemia abbia introdotto elementi di novità sull’economia reale, la spinta debitoria, il saccheggio delle risorse delle comunità più povere e indifese. Ma, come nel caso delle proteste etichettate come Gilets Jaunes, la protesta si manifesta all’improvviso anche nel cuore dell’Occidente, ostentando il senso di insicurezza dell’intera Europa occidentale, dove la pandemia ha messo in campo all’improvviso, all’interno di una cappa di militarizzazione che svela il volto dell’altro componente che costituisce la guerra civile globale, contraddizioni enormi tra salute e necessità di produzione, consumo e mancanza di denaro, ridefinizione dei bisogni essenziali. Ma se il diffuso populismo contemporaneo sembra essere una reazione non critica a uno stato di ingiustizia presente, il lavoro politico richiede un progressivo abbandono di istanze identitarie, conservatrici e nostalgiche per affrontare uno scontro di classe multietnico.
Il libro presenta una lettura delle recenti lotte cilene, così scarsamente documentate dai media italiani, con il contributo di Alessandro Peragalli e Susanna De Guio, “Chile despertó: storia e prospettive di un’insurrezione popolare”, che traccia un resoconto che parte dall’istituzione violenta dell’economia neoliberista, con il golpe del 1973, fino alla crisi odierna che ha visto, almeno fino alla pandemia, la nascita e l’inevitabile scontrarsi di lotte popolari per l’acqua, per i trasporti e per i salari che sono state affrontate con una violenza estrema espressa con uccisioni, rapimenti, stupri, ferimenti e arresti. E la violenza sia istituzionale sia espressa da forme privatizzate paramilitari è al centro della realtà messicana, lacerata da forme selvagge di accumulazione attuate attraverso l’espropriazione. Ne parla Fabrizio Lorusso in “Comprendere la violenza e il conflitto in Messico”, rendendo evidente come le politiche contro il narcotraffico nascondano in realtà un piano di dominio del territorio e della popolazione molto ampio e che travalica il problema della produzione ed esportazione degli stupefacenti. All’interno del modello neoliberista messicano, l’economia del narcotraffico si è fusa con quella istituzionale fino a creare una serie di territori autonomi mantenuti da forze di sicurezza che stroncano con la massima violenza ogni forma di protesta popolare e ogni realtà autonoma di carattere democratico. Questo avviene attraverso una delega progressiva dell’uso della violenza legittima da parte dello Stato alle organizzazioni private che sono diventate “macchine di morte di massa e di esecuzione selettiva delle vittime”.
Le trasformazioni mediorientali, o meglio la risposta mediorientale ai meccanismi di espropriazione e sfruttamento globali, vedono oggi nella politica turca (Sara Montanaro in “La pace è un lusso”) e nella resistenza curda un altro elemento fondamentale delle forme di dominio, soprattutto nell’ambito di quello che Giovanni Iozzoli, nel suo intervento “Islam, modernità e guerra alla guerra”, è il ritorno della suggestione religiosa come meccanismo identitario di massa. In particolare è la capacità di esercitare una eccezionale violenza, soprattutto sulle etnie non gradite, che è elemento chiave del proporsi come Stato da parte di organizzazioni come ISIS all’interno di un panorama politico molto frammentato. Ma dove lo Stato è forte e ha una grande tradizione, come in Francia, osserviamo un doppio fronte interno costituito dalle forme dilaganti dell’antiterrorismo rivolto contro la popolazione emigrata (anche di seconda e terza generazione); ne parlano Marta Lotto in “L’antiterrorismo in Francia: in guerra sul territorio nazionale”, descrivendo lo scenario interno da guerra civile e riduzione di ogni forma di diritto individuale in un’ottica di repressione preventiva, e Nicolò Molinari e Enzo Names dedicano in lungo studio intitolato “L’assalto al centro” dedicato al movimento di Gilet Jaunes. Quest’ultimo è forse un “nemico interno” certamente scatenato dalla progressiva esclusione sociale a seguito della precarizzazione e della perdita di valore sociale e lavorativo. Dove se ne addita l’eterogeneità, se ne può invece vedere una storia di retrocessione sociale delle periferie e dei centri lontani dalle grandi città e dalle sue cattedrali del consumo. Nasce infatti con l’aumento della tassa sulla benzina, provvedimento destinato a mettere in difficoltà chi deve percorrere lunghe distanze con l’automobile, come i pendolari, che non si sono potuti permettere abitazioni in località coperte da trasporti pubblici efficaci, o lavoratori delle consegne. È quindi alla base un movimento che pretende una diversa distribuzione delle ricchezze usando la strategia di ostacolare l’economia e il consumo. Stefano Portelli, in “Uno tsunami repubblicano e antifascista in Catalogna”, interpreta la rivolta catalana e il tentativo di secessione come un progetto di ridefinire diversi rapporti sociali attraverso l’autonomia, dunque una lotta che trae origine dalla sconfitta della Seconda Repubblica e dalla lotta antifascista e da quel progetto democratico e libertario conclusosi tragicamente. La restaurazione della monarchia in Spagna e il susseguirsi dei governi frutto di sofferte elezioni hanno consentito una continuità con la dittatura, e l’impressione che le mobilitazioni popolari catalane intendano rompere con la Spagna soprattutto in quanto rappresentazione dell’autoritarismo e del conservatorismo. Sono processi non esenti da contraddizioni, soprattutto da parte di una delle regioni più ricche d’Europa, ma è certo che la repressione del governo centrale si è allineata, nei temi e nei metodi, alle forme repressive di guerra civile che abbiamo visto nelle altre parti del pianeta.
Prima dello scatenarsi del movimento di massa contro il green pass, la scena italiana era stata fortemente caratterizzata dalla lotta no TAV, una mobilitazione prolungata (nasce attorno al 1995) destinata a segnare ogni successiva protesta politica radicata nel territorio come il movimento no TAP, che si autodefinisce “contro il corridoio sud del gas, per la tutela e la salvaguardia dei territori”. Per l’autodeterminazione delle popolazioni che credono in un modello di sviluppo sostenibile, diverso da quello imposto, contro la speculazione finanziaria a scapito delle comunità. Elena Papadia descrive le lotte autonome di quei territori e le forme di repressione che, ancora una volta, riprendono quelle della repressione globale. Emilio Quadrelli (“Gang, merce, autodifesa. Note sul ‘fronte interno’ e la guerra in permanenza”) analizza la storia delle gang giovanili albanesi a Genova nell’ambito di una guerra interna, che associa alle forme più materiali quelle di una burocrazia progressivamente votata alla riduzione di ogni diritto. È la normativa perennemente emergenziale che oggi prevede l’arresto dei migranti, la repressione della solidarietà, gli sgomberi, i fermi, i daspo, l’ostacolo alle lotte sindacali, la criminalizzazione dei picchetti. La vita delle gang dei giovani albanesi si è caratterizzata per uno scontro ad avere merci che potevano solo osservare senza poterle possedere e per una insubordinazione al potere patriarcale della tradizione, che li vedeva condannati a una sottomissione agli adulti.
Due episodi, tuttavia, ci dimostrano come la guerra civile diffusa, combattuta da entrambe le parti, non abbia escluso il centro del potere economico mondiale: gli Stati Uniti. Il primo è l’uccisione di George Floyd a Minneapolis, il secondo l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio. Entrambi dimostrano, al di là delle cause specifiche che hanno scatenato questi due specifici episodi, l’estrema instabilità del potere statunitense nel fronte interno, quello della tanto decantata civiltà che dovrebbe guidare il mondo. “La classe media e lavoratrice americana, con ancora addosso i segni freschi della crisi del 2008, traducibili in disoccupazione di massa, precarietà lavorativa, incremento di sfratti e pignoramenti, impennata dei consumi di psicofarmaci nonché crescenti tassi di morte per suicidio, alcol o droga”, come scrive Jack Orlando intervenendo sul “crepuscolo americano”, hanno manifestato un’ansia di riscatto che ha seguito l’illusione trumpiana del rientro in Patria delle produzioni industriali (aspetto che entrerebbe in immediata collisione con il piano strategico del capitalismo globale), abbandonandosi a un immaginario irrazionale che ha coinvolto anche le strategie di contenimento della pandemia. Propria la pandemia, infatti, ha acuito la crisi e la disperazione delle classi lavoratrici. Ma la narrazione trumpiana, che si sviluppava attraverso il razzismo strutturale, non ha influenzato interamente la classe lavoratrice, e in tutti gli scontri seguiti alla morte di Floyd è sempre stata presente una componente della working class bianca che ha pagato il prezzo economico della pandemia e non crede al rilancio attraverso il realizzarsi di una supremazia statunitense. Per comprendere come è nato questo immaginario che è nella testa di chi partecipa, o è costretto a partecipare per sopravvivere alla guerra civile diffusa, il saggio di Sandro Moiso mette in fila i molti elementi culturali che sono stati capaci di intuire l’evoluzione dei processi mondiali, partendo dai fallimenti delle rivoluzioni e delle guerre civili statunitensi, conflitti sempre irrisolti dal punto di vista di classe. Alla costruzione di questo immaginario troviamo soprattutto film che, all’interno dei generi popolari, hanno tessuto le trame della fine del sogno americano. Primo fra tutti l’elemento religioso e la sua degradazione, che tanto hanno influito nella formazione del conservatorismo proletario e sottoproletario in quell’immenso territorio che sono gli Stati Uniti rurali. Questo sguardo disperato a un passato che non potrà più ripresentarsi costringerà, forse, la moltitudine a rivolgersi a progetti politici che richiedono nuove alleanze al di fuori della logora identità WASP.
Chiude il volume Gioacchino Toti con un saggio che prende lo spunto dall’analisi delle piattaforme informatiche e dei sistemi di sorveglianza per descrivere l’evoluzione antropologica che viene messa in gioco assieme alle altre crisi descritte, quella della trasformazione degli individui in merce. Mutazione prevista dallo stesso Marx analizzando i processi di alienazione, oggi l’identità umana, il sistema percettivo e le sue reazioni sono stati radicalmente modificati. Da un lato l’individuo, attraverso le piattaforme, vota la propria esistenza alla produzione di un valore che viene costantemente espropriato e diventa una materia prima, dall’altro è costantemente controllato e sottoposto a una serie di filtri delle informazioni per renderlo più produttivo e innocuo. In cambio di questa produzione l’umano non riceve denaro ma “sensazione di partecipazione, di relazione sociale, di identità, di protagonismo”. Secondo Toti, e condivido totalmente, la realtà ha decisamente spiazzato le prospettive ottimistiche che, a partire dagli anni Ottanta, vedevano nella connessione mondiale e nella condivisione delle informazioni la realizzazione di un’utopia. Oggi la rete è più simile a una fabbrica, a una catena di montaggio che ci lega ogni giorno, ogni ora. E così la rete è anche il luogo del controllo totale, della transazione economica, della disinformazione, della creazione di ideologie irrazionaliste e della frammentazione di classe, incrementando isolamento, vulnerabilità e alienazione. Alla solidarietà materiale dello sciopero, del picchetto e del sabotaggio si sono sostituiti like e pollici virtuali.