Sandro Martini ha pensieri costanti per l’avo armeno di Aleppo (il nonno) con grandi storie di dimore medicee e dipinti ricopiati per diletto. Per apprendere da dove arriva la sua matita artistica abbiamo scritti pubblici e qualche nota biografica che portano in un altrove lontano, per lo più dimenticato dopo le grandi trasformazioni di fine Novecento. E dunque affidiamoci a antiche ricchezze, come suggerisce il poeta Alberto Pellegatta, poiché non si possono più progettare viaggetti arbasiniani per la ricerca di “formazioni” ma soltanto trasferimenti post-turistici e post parecchie cose. A cercare nel folto, alcuni irregolari si trovano, e solitari che tutto sono tranne tipi bizzarri (dèi lasciatecene indenni) che hanno risonanza soltanto nel loro quartiere. Sandro Martini fa grandi opere, installazioni colossali, graffiti estesi e occupanti intere sale, quadri che hanno studiato – in giovinezza – Rothko, Burri, Pollock. Le sue opere, sparse per il mondo, in musei e spazi pubblici, seguono l’artista nei suoi viaggi e permanenze a San Francisco, New York, Los Angeles. Ma poi, tra una fuga e l’altra, soprattutto scrive, racconta, insegna l’arte dell’affresco, la sessualità dei tagli di Fontana, le impronte artiglianti dei maestri amati. E gli scritti sconfinano in editori come Scheiwiller, e bisognava pensarci, l’arte in questo caso diventa un catalogo della fuga, qualcosa che Roberto Sanesi scrisse a buon proposito sulla questione.
Oggi, in una messe di edizioni introvabili, Srotolabile – Scritti filanti sull’arte si aggrappa alle effimere e instabili realtà odierne che niente spiegano e tutto accatastano in poverrime rovine. E arriva Martini scrittore che vagabonda fra labirinti e Alcenero parla come un viaggiatore del tempo con una borsa piena di matite, punteruoli e paste colorate. Dalla preistoria a Fontana l’epica dei graffiti testimonia le ere dell’uomo, e sono vere e proprie rivelazioni quelle che leggiamo, “improvvisi” sulla carta in grado di sorprendere a ogni rigo. Come raccogliessimo anche noi “cose impensabili”, per strada, seguendo l’artista in un reciproco incontro. E la curiosità è grande quando ci spiega il disegno dei reticoli sulla tela determinando le zone da colorare successivamente. Fra debordamenti, rimozioni, intrecci, nulla sembra affidato al caso. Ogni quadro lascia un’impronta e Martini si chiede quali effetti abbiano queste impronte nel tempo. E da cosa nascono l’impressionismo e i colori galoppanti di Pollock e De Kooning. I tubetti di colore e i barattoli da cui escono serpenti di tintura e sgocciolamenti quale influsso hanno avuto? Certo ognuno crea i paesaggi in cui vorrebbe vivere. E qui si ripropongono curiosità antiche. Ci si ferma come davanti a una vetrina in piena New York. Manhattan, probabilmente. Ed è strano, perché in tutto questo amabilissimo libretto non si fa che risalire alla vera storia delle arti nel corso dei millenni, e più, in una sorta di archeologia del gesto: l’intrattenersi davanti alle crisalidi della modernità è il percorso visivo che non si ferma.
E infine – ma la fine non è mai certa, addentrandosi nei rimandi e negli intrecci di Srotolabile – ogni cosa risale all’odore della pittura (più di un’epifania il rimando al famoso e importante Gli odori della pittura, Scheiwiller), poiché insomma vale sapere, e qui lo si legge, che a Venezia le sete venivano tinte con l’urina. Martini mescola il gesto dell’incisione allo sguardo posato sulle malte che devono asciugarsi, ce ne dà esempio in una prosa veloce, libera, che sentiamo grattare più dal metallo che dalle setole del pennello. Finanche le birre fresche a Parigi diventano gli attrezzi del mestiere affascinanti come il Museo di Berkeley, ormai chiuso, ma ricordato affettuosamente. Poiché lì il terremoto ha interrotto scene importanti, oggi valgono queste continue registrazioni che altro non sono che l’elettrocardiogramma di un artista davanti alle prove di stampa.