Non è da tutti dare del tu al Novecento, chiamarlo a rispondere delle contraddizioni, delle nevrosi e della radicalità che spesso hanno attraversato, nel secolo breve, la vicenda dell’esistere: occorre intraprendenza, spirito critico e una certa dose di ironia, oltre a preparazione e onestà intellettuale. Su questo delicato crinale tra disposizione all’ascolto e arguzia nel domandare si gioca tutto il senso di uno scambio: chi chiede fa in modo che emerga l’altrimenti irritrovabile; chi replica concede all’altro una fulminea immersione nelle sue zone d’ombra.
A questo sentire si accordano le interviste che nel 1984 Sandra Petrignani realizzò, per il quotidiano di Roma il Messaggero, a Le signore della scrittura, ovvero le dieci autrici – allora ultrasettantenni – più significative nel panorama della narrativa italiana (oggi il volume che le raccoglie è in libreria per La Tartaruga, in un’edizione aggiornata). Pagine, queste, che, nonostante diano voce a un mondo ormai tramontato definitivamente, si impongono per l’attualità del loro portato. Se è vero, infatti, che queste conversazioni vengono elaborate in un tempo in cui era ancora possibile intessere un dialogo con i grandi maestri della nostra storia letteraria, è vero anche che proprio in questi colloqui emergono ferite, disillusioni, rivendicazioni tuttora valide e che hanno a che fare con il femminile. Ciò che affiora, al di là delle singole peculiarità, è l’assenza di un reale riconoscimento, che condanna queste autrici, a dispetto della loro carriera e dell’innegabile valore, a un ruolo di secondo piano, nelle antologie e nell’immaginario comune, rispetto ai loro colleghi uomini. Nella maggior parte dei casi, anzi, sono loro stesse – vittime di un retaggio patriarcale che fatica a essere superato – a definirsi scrittori, anziché scrittrici, nell’amaro tentativo di difendere il loro prestigio e la loro credibilità. Uno scarto che parla direttamente al nostro tempo.
Tra la vitalità e la nostalgia che irrorano queste pagine, colpiscono in particolare, in questi giorni disumani, le parole di Anna Maria Ortese a proposito della violenza, percepita come uno spettro estraneo alla vita che dorme al nostro fianco. E poi la gravitas con cui Anna Banti denuncia la mancanza di prospettiva che affligge il presente, l’idealismo e l’ironia con cui la pasionaria Alba de Céspedes orienta i suoi giorni, l’irripetibilità dell’esistenza che Lalla Romano cerca di afferrare con la scrittura, la compostezza algida con cui Maria Bellonci consegna le sue risposte già dattiloscritte. Il lettore potrà incontrare autrici appartate o che, in ogni caso, oggi difficilmente troverebbe in libreria – Laudomia Bonanni, Fausta Cialente, Livia De Stefani, Paola Masino –, e si imbatterà in due interviste impossibili: la prima, a Elsa Morante, elaborata quando la scrittrice, ormai malata, non si concedeva più alla stampa, è realizzata a partire da dichiarazioni estrapolate da interventi pubblici; la seconda, a Natalia Ginzburg, nel 1984 esclusa dal volume in virtù del criterio anagrafico adottato, viene ora integrata sulla base di altre interviste condotte in quegli anni dalla stessa Petrignani per il Messaggero.
Imperdonabili, allora come oggi, tutte coloro che inseguono testardamente un’aderenza tra letteratura e vita e che si ostinano a rivendicare il proprio ruolo, ad assumere su di sé un impegno nei confronti della pagina scritta e dell’esistenza – una responsabilità inscindibile. Ma il romanzo è anche il luogo in cui ognuna può indossare una maschera ed esorcizzare le sue paure, le sue irrisolte solitudini. Le interviste, magistralmente dirette da Petrignani, divengono allora lo spazio d’elezione in cui strappare il velo e mettere in luce lo iato tra l’eredità che ci hanno lasciato queste donne pugnaci e ammantate da un’aura di sacralità, e la percezione che loro ebbero di sé. Va in scena così un passo a due con la verità – e persino chi crede di potervisi sottrarre, finisce per consegnarsi suo malgrado a questa danza inesorabile.