Sándor Márai / Un cuore in inverno

Sándor Márai, Bébi, il primo amore, tr. di Laura Sgarioto, Adelphi, pp. 135, euro 19,00 stampa, euro 10,99 epub

«How many roads must a man walk down, before you call him a man?», ovvero quanta strada deve fare un uomo, prima di poter essere chiamato uomo? Questo canta Bob Dylan in Blowing in the wind, e mi è venuta in mente, o meglio nelle orecchie, pensando al protagonista di Bébi, il primo amore. Che è anche il primo romanzo di Sándor Márai, rimasto inedito da noi fino ad ora. Un romanzo che, siccome lo leggiamo anni dopo Le braci, ci fa pensare al protagonista di quella storia e a certe qualità che lo scrittore aveva fin dall’inizio. Quel modo di raccontare, quello stile, quel modo di osservare il mondo. Quella precisione di scrittura e quella generosità, e dovizia di particolari tutti necessari. Quella voce inconfondibile, un po’ antica nei modi e all’avanguardia nell’analisi e nel resoconto dei sentimenti.

Il protagonista di Bébi, il primo amore è un professore di latino. Solitario, metodico, abitudinario. La sua giornata si divide in frazioni di tempo precise, che comprendono la passeggiata mattutina, l’insegnamento, la correzione dei compiti, il circolo dove leggere il giornale e bere qualcosa. Eccezionalmente, durante un’estate si reca in villeggiatura in una località dei monti Tatra dove è già stato molti anni prima. È inquieto, le abitudini di una vita sembrano all’improvviso essere strette e inutili, ma non sa cosa gli sta succedendo, non lo riesce a capire. E così tiene un diario. Scrive tutto quello che pensa e che prova, che forse in questo modo riuscirà a uscire dal disagio, dal malessere che lo turba. Ed è questo diario che noi leggiamo.

Durante il soggiorno sui Tatra il professore fa un incontro, del tutto indesiderato ma al tempo stesso fondamentale. È uno strano personaggio che un po’ gli ripugna, per come è raffazzonato, poco pulito, e per come chiacchiera senza sosta. E il professore, per sua abitudine, non vuole conoscere nessuno. Ma dopo il primo incontro qualcosa lo attrae fatalmente verso il signor Timàr, e qualcosa si smuove dentro di lui. Quando rientra in città, si trova a insegnare nell’ultima classe del liceo, ed è la sua prima volta. È abituato a trattare con dei ragazzini, e ora si trova davanti a adolescenti, a un passo dal diventare adulti. E, colmo dei colmi, si trova in classe anche delle ragazze. Che secondo lui proprio non dovrebbero esserci, in classe insieme ai maschi. E meno ancora dovrebbero andare a passeggio, a coppie, un ragazzo e una ragazza, sulla stessa passeggiata che percorre lui più volte al giorno.

Come se uscisse da un’anestesia totale, il professore comincia a guardarsi attorno, a sentire qualcosa. Tra gli studenti ce n’è uno particolarmente brillante, Madàr, palesemente molto povero, che gli ricorda sé stesso da giovane. Madàr passeggia con un’altra studentessa, Margit Cserey. Mentre l’anno scolastico si trascina e il professore si sforza di condurre la vita che ha sempre condotto, i sentimenti che prova verso Madàr, che all’inizio lo ha conquistato con la sua bravura e la sua brillantezza, si concentrano in una forma di odio potente. Un odio così forte, così inspiegabile, così invincibile. Un odio che diventa vendetta. Il professore si industria a intercettare una lettera, scritta da Madàr e destinata a Margit, una lettera d’amore, una lettera in cui Madàr chiama la ragazza Bébi, una lettera che fa immaginare una relazione, qualcosa che si sia consumato e poi interrotto, o corrotto.

È così che dentro l’odio si fa strada l’amore, un amore non riconosciuto, non compreso, non contemplato, non immaginato. Il professore, che come impara dalla lettera di Madàr gli studenti chiamano “il tricheco”, non è solo turbato dall’amore che ha visto nascere tra i due ragazzi. È turbato, sconvolto dall’amore che prova lui. Lui che dentro di sé comincia a chiamare Margit Bébi. Lui che vorrebbe parlarle, toccarle la testa. O anche solo guardarla. Strani percorsi trova l’amore per farsi strada. E strane strade percorrono gli uomini prima di riconoscere di essere umani: di essere fragili e bisognosi, di essere incapaci di vivere secondo i rigidi principi che si sono dati, quando se li sono dati solo per evitare di confrontarsi con i sentimenti e le passioni. Che certo i sentimenti portano sofferenza, ma cosa sarebbe la vita senza. Sarebbe quella che ha vissuto il professore, asettica e fredda, sempre uguale, una non vita.

Devo dire che, abbastanza paradossalmente, questo romanzo mi ha ricordato Un amore di Dino Buzzati. Che non gli assomiglia per niente, se non per quell’assolutismo con cui l’amore arriva a chi l’ha sempre voluto tenere lontano. Come fosse una vendetta – se non ti sei mai lasciato andare, se non hai mai rischiato, verrai travolto completamente. Ma pure quel senso di ineluttabile, quella sensazione che una volta che l’amore lo si è scoperto, a chiunque sia rivolto, diventa la cosa più importante. Così importante che si è disposti a lasciarci anche la vita. Perché la si sarà lasciata, finalmente, dopo averla vissuta, anche se brevemente, anche se malamente.

Del resto in Le braci c’è questo fortissimo elemento del destino, del compimento, di qualcosa che dobbiamo solo aspettare, perché ci raggiungerà ovunque noi siamo. E insieme all’amore emerge anche la malvagità, il desiderio di vendetta, la forza distruttiva di un carattere che si era sempre ritenuto al riparo dalle passioni. Perché quando il cuore si apre, quando l’anima si affaccia alla vita, lo fa con tutto quello che contiene, bene e male, amore e odio, slanci di ogni genere e meschinità altrettanto varie. Il cuore del professore trabocca di sentimenti contrastanti, riconosciuti con fatica, riottosamente. Fino a fare sue le parole dell’uomo incontrato suo malgrado sui monti Tatra, l’uomo che ha fatto da catalizzatore della sua trasformazione, del suo diventare umano. Il signor Timàr gli aveva parlato di “solitudine colpevole”: «è colpevole chiunque si tenga lontano dagli esseri umani». Ecco, bastano queste parole per capire che grande profondità ci ha lasciato Màrai, con questo romanzo.