Beckett seconda parte. Sam, per gli amici, nel secondo volume dell’epistolario, con la cura italiana di Franca Cavagnoli. E cura vi è nella sbalorditiva quantità di lettere dove troviamo sorprese a ogni angolo, non fosse altro perché il mondo personale del “roccioso” Beckett ha poco della scrittura che tutti conoscono attraverso romanzi, pièce teatrali, poesie: il campione dell’ineffabilità, il grande irlandese qui racconta, descrive, critica, le rughe e le strategie della sua vita e del tempo in cui crescono stenti e poi successo. Muta la lingua, come ben si sa, muta l’attenzione verso gli altri, mentre cresce il racconto delle vicissitudini personali. La faccia “più bella del Novecento” (copyright Tullio Pericoli) diventa quel paesaggio che contiene Molloy, Malone, Godot, e anche i numerosi bicchieri di Whiskey (detto all’irlandese). E, come dire, assume la parte di Star nella Parigi del dopoguerra insieme all’impossessamento della lingua francese che lo fa sentire più libero (dalla presenza di Joyce?) di vedere le cose per come sono.
Dovremo ancora una volta, seguendo il fiume esondante di queste lettere, comprendere come Beckett sia davvero un “genio” delle epistole, accompagnato a quello che già conosciamo attraverso le sue opere. Scrupolo, desiderio di affermazione, senso del lutto mai sopito, ricreative allusioni al sesso e istruzioni sul come farlo (pedanteria e divertimento riguardo a certe “esibizioni”). I rigori del suo credo teatrale diventano ben evidenti, e nelle lettere il tentativo di dare un senso a ciò (e lui lo sa benissimo) che non ne ha lo pone senz’altro in un’esistenza scomoda dove le varie necessità mai potranno eludere la “posizione estetica”. Senza contare che per Beckett l’inarrivabile sottrazione a cui si dedica diventa approdo a un silenzio mai conclusivo. Vederlo non è raggiungerlo. Ma farlo “sentire” o addirittura vedere, così come si evidenzia nei suoi apparati scenografici. Per lui ogni arte è separata, e lui non vuole vedere danni ulteriori dentro le proprie Mise-en-scène. Tranne poi provare risentimenti, e ironie, verso gli starnazzi della stampa inglese di fronte al suo Godot.
Ma sono molti i meriti e i supplementi che la raccolta delle lettere dirige verso il lettore, esperto o meno che sia: sulla figura di Beckett conferme e scoperte si susseguono in contemporanea, e alla fine sembra pressoché naturale pensare, come Arbasino, quanto il volto analogo a quello di Ezra Pound possa entrare con tutti tipi di esaurimento in un film di Polanski o in una tela di Lucian Freud. Ma sono concessioni letterarie, il vero considerato sta nella ricostruzione d’epoca che ogni lettera contribuisce a definire. Epoca in cui agivano, è bene ricordarlo, una quantità di personaggi che soltanto un ben attrezzato Indice dei nomi (ovviamente presente nelle ultime pagine del volume) riesce a esaltare. Sappiamo che quest’opera monumentale sarà infine composta di quattro tomi, non è difficile pensare alla quantità di note, rimandi, ricordi che la mente creativa di Beckett (non l’unica di quel periodo, per la verità) aggiungerà alla visione che il pubblico italiano ha del secolo scorso.