Sadie Plant / Le droghe in Occidente

Sadie Plant, Scritti sulla/sotto droga, tr. di Clara Ciccioni, Nero Editions, pp. 284, euro 22,00 stampa, euro 9,99 epub

Insieme a Nick Land e al più giovane Mark Fisher, Sadie Plant è stata, presso la facoltà di filosofia dell’Università di Warwick, tra le fondatrici, negli anni ’90, del collettivo Cybernetic Culture Research Unit (CCRU), legato alla riflessione sull’accelerazionismo e alle stimolanti derive filosofiche del realismo speculativo e della OOO (Ontologia Orientata agli Oggetti) dell’americano Graham Harman. Land è scivolato successivamente nelle paludi dell’Alt-Right, dopo la destabilizzante raccolta di saggi Fanged Noumena (“noumeni zannuti”, pubblicato in versione italiana in due separati volumi da Luiss University Press, come Collasso, 2020 e No Future, 2022) e il deludente libello Dark Enlightment (Illuminismo oscuro, tradotto in italiano – pessimamente, questo va precisato – da GOG nel 2021), finendo a perpetrare deliranti posizioni para-naziste in difesa del razzismo scientifico e dell’eugenetica, prima di abbandonare – finalmente, è il caso di dirlo – la speculazione filosofica in favore di altre, più remunerative, attività; Fisher è rimasto coerente alla sua personale rielaborazione del marxismo, criticando il Realismo capitalista (Nero Editions, 2018) e teorizzando la nozione di un comunismo acido che non ha purtroppo mai avuto modo di elaborare compiutamente, essendosi malauguratamente tolto la vita nel 2017; Plant invece si è ormai ritirata da quasi un ventennio dalla scrittura attiva limitandosi all’insegnamento e alla gestione di un suo Website. Se davvero l’albero si riconosce dai frutti dovremmo, considerando questi risultati ultimi – una eremita, un suicida, un fascista – essere piuttosto pessimisti. In realtà la palestra di intelligenze raccolte intorno al CCRU ha prodotto, tra la fine degli anni ’90 e il primo decennio del 2000, una serie di libri, interventi e riflessioni, assai utili per comprendere la contemporaneità e, forse, per tracciare prospezioni – iperstizioni, come dicono gli accelerazionisti – sugli incerti sviluppi futuri del destino dei sapiens occidentali e non solo.

Uno di questi libri (da leggere, tra l’altro, per individuare correttamente i presupposti acidi della nuova e mai ben chiarita incarnazione del comunismo prospettata da Fisher) è senz’altro l’ultima opera pubblicata nel lontano 1999 da Plant, e appena tradotta da Nero Editions. Writing on Drugs è sostanzialmente – ponte ideale tra le ricerche iniziali della studiosa sull’Internazionale situazionista e quelle successive sul potenziale politico e sociale della cyber-tecnologia e del cyber-femminismo (qualsiasi cosa voglia dire quest’ultimo termine) – uno studio storico, sociologico e politico sulle droghe. Il titolo italiano Scritti sulla/sotto droga è parzialmente fuorviante, trattandosi di un testo teorico e quasi enciclopedico di storia, sociologia e, in parte, farmacologia delle sostanze psicotrope in generale, dove è quasi del tutto assente la testimonianza diretta, esperienziale, dello psiconauta in prima persona, come è tipico di altri libri più famosi in argomento (ampiamente citati nelle pagine di Sadie Plant), dalle Confessioni di un oppiomane di De Quincey a I paradisi artificiali di Baudelaire, da Le porte della percezione di Huxley a L’infinito turbolento/Miserabile miracolo di Michaux, da Al paese dei Tarahumara di Artaud a Il pasto nudo di Burroughs, da Avvicinamenti di Jünger a Oppio di Cocteau. Che poi, quando analizzava tutta questa letteratura sulla droga, Sadie fosse anche, a sua volta, sotto droga, resta probabile ma non scontato, comunque implicito.

La bibliografia consultata dalla studiosa britannica e riportata in appendice al volume è sconfinata e Sadie percorre un excursus completo che, oltre ai classici cui abbiamo accennato, include la psicoanalisi e Freud, i Mille piani di Deleuze e Guattari, le emicranie di Oliver Sacks o il Teatrum Philosophicum di Foucault. Ogni droga, sostiene suggestivamente l’autrice, è l’epitome e il propellente di un periodo storico, uno Zeitgeist chimico potremmo dire: l’hashish e l’oppio, scandiscono le imprese napoleoniche, la Prima Rivoluzione industriale e il Romanticismo; la cocaina (con le sue immancabili ricadute sullo stevensoniano dott. Jekyll, sui detective tossici Sherlock Holmes e Sigmund Freud, per non parlare della ricetta originaria della Coca-Cola, “brevettata” nel 1886), la Seconda Rivoluzione industriale e la Belle Époque; le anfetamine, i due dopoguerra mondiali, l’ascesa e la caduta dei totalitarismi, la Guerra fredda e il Piano Marshall; gli allucinogeni, la palingenesi incompiuta degli anni ’60, il sogno hippie e le barricate del ’68, Lucy in the Sky with Diamonds e Purple Haze; l’MDMA, infine, l’estasi dei rave party, la trance degli anni ’80, la globalizzazione, il cyberpunk e l’avvento del cyberspazio: da quel momento in poi la deriva non è più solo chimica ma informatica, compiutamente tecnologica.

La storia del mondo occidentale attraverso le droghe. Ma la storia del mondo occidentale è anche la storia del capitalismo e negli ultimi capitoli del libro Sadie non trascura di entrare in questioni politiche, dati statistici, inchieste: la droga come merce, la “lotta alla droga” come strumento di consenso elettorale, ecc. A questo punto il testo slitta pericolosamente verso il giornalismo e la cronaca: per quanto interessanti, queste sono forse le pagine più deboli del saggio, perché riferendosi a un’attualità del 1999, sono ormai remote da noi. La “lotta alla droga”, dice sostanzialmente Sadie – e questo è assolutamente valido anche oggi – oltre che inutile è ipocrita: il mercato nero è troppo giovevole e redditizio, e spaccio e controllo poliziesco sono in pratica gestiti e dispiegati dagli stessi vettori. Lotta alla droga e neoliberismo vanno a braccetto, e mentre Nixon, Reagan, i Bush e gli altri leader occidentali allineati, combattono i trafficanti, la CIA e i servizi segreti dei loro paesi si finanziano attraverso lo spaccio di cocaina ed eroina. Un serpente che si morde la coda. Già in queste pagine cominciamo a capire dove, forse, Mark Fisher guardasse quando – intendendo spezzare un circolo vizioso – parlava di comunismo acido.