Con Il randagio e altri racconti prosegue la pubblicazione italiana da parte di Carbonio Editore dell’opera dello scrittore iraniano Sadeq Hedayat – tra i massimi intellettuali iraniani del XX secolo, morto suicida a Parigi nel 1951 – iniziata con La civetta cieca, romanzo visionario riconosciuto come la sua opera più importante e tuttora oggetto di censure in patria (dove poté iniziare a circolare solo nel 1941); La civetta cieca è un testo cupo, angoscioso e crudelmente poetico che travolge per la sua bellezza malata, i luoghi onirici in cui i confini tra sogno e realtà, vivi e morti sono fragili e dove gli eventi non scorrono lineari ma ritornano e svaniscono come nelle narrazioni orali delle antiche leggende.
I racconti invece, pur nella loro eterogeneità, sembrano prediligere un linguaggio più diretto, adatto alla narrazione di un’umanità alle prese con la vita quotidiana, le sue trappole e i luoghi comuni più radicati; i personaggi, abilmente caratterizzati da pennellate decise e descrizioni puntuali, sono situati esattamente nel tempo – l’arida contemporaneità in costante conflitto con il passato glorioso del popolo iraniano – e nello spazio, quelle strade di Teheran e quei vicoli di Le Havre che Hedayat sa tanto efficacemente evocare.
Scritti nell’arco di un ventennio e selezionati da diverse raccolte, i testi avrebbero dovuto essere dieci ma, quando la traduttrice Anna Vanzan, grande studiosa e divulgatrice del mondo persiano è scomparsa nel 2020, l’editore ha scelto di fermarsi con lei, pubblicando solo i nove già tradotti. Nove storie, nove ritratti emblematici – dal macellaio all’imam, dal cambiavalute ai potenti alla corte del califfo – di una società viva e ferita, affascinante e oscura, con ampie zone d’ombra dove possono celarsi un mistero affascinante, un sentimento grandioso o la più bieca grettezza umana.
Da La civetta cieca ai racconti, alcune tematiche fondamentali permeano l’opera dello scrittore: la narrazione di una quotidianità che è al contempo base della società e sua rovina, il matrimonio – che molto si allontana da quell’amore totalizzante e idealizzato che non è tuttavia disgiunto da sventura e tormento –, le usanze e i costumi di un popolo che impregnano ogni azione individuale e collettiva, ogni vissuto personale, rendendo difficilissimo se non vano qualsiasi tentativo di evasione da un tracciato sociale soffocante quanto antico e radicato.
Si ritrova inoltre, nelle pur molteplici sfumature che caratterizzano il romanzo come ogni singolo racconto, un linguaggio insieme lirico e corporeo, viscerale, capace di far percepire attraverso le parole gli odori e i sapori di luoghi lontani e di trasportare con sé il lettore nei dedali delle viuzze iraniane come nei meandri più reconditi della mente umana, in pagine che fanno viaggiare in un mondo affascinante, complesso, per lo più cupo, dove la magia può affacciarsi a ogni angolo, potente e capricciosa – in questo non dissimile dalla realtà.
Al centro dei racconti, l’anima del cane randagio protagonista dell’ultimo testo, rivelatorio al punto che giunti alla fine si è colti dalla tentazione di rileggerli tutti alla luce di quei “due occhi nocciola pieni di dolore, tormento e speranza” che sembrano pervadere l’intera opera. Nella nera parabola del randagio è possibile leggere tutta la disperazione che scaturisce dal sentimento di non-appartenenza a un’umanità sì disprezzata, ma che resta l’unica casa possibile. Un rifugio da cui anche l’autore, attraverso il suo protagonista animale, sembra sentirsi non solo escluso ma cacciato a forza, restando così destinato a perdersi nell’inseguimento di un’illusione di calore, di accoglienza, che si rivelerà tuttavia solo una maschera, caduta la quale, all’anima vagabonda e sensibile dell’artista non resterà che lasciarsi andare in balìa degli eventi, fino all’unica conclusione possibile: la morte, in solitudine.