Memorie, arguzie ripescate nel folto di una vita mai paga e avida di lavoro, scritture, teatro, vita mai in sosta e mai priva di donne capaci di sedurre e dunque di allontanarlo dalla solitudine: Sacha Guitry (1855-1957), autore di oltre cento commedie, trenta film, novecento articoli per giornali e riviste, di un libro di versi e di un solo romanzo. Memorie di un baro, celebrativo del gioco e di alcune città il cui carattere inducono in tentazione e svariate infatuazioni abbandonandosi a vie, piazze e anfratti da cui trarre ogni sorta di schizzi, bozzetti e aforismi penetranti. Guitry disse che scriveva commedie pur non essendo il suo mestiere, più giusto definirsi disegnatore, e infine attore. Attore del suo teatro, nemico giurato del dramma e cultore indefesso di ironia e sorriso. Ammiratore di Feydeau, la cui moglie lo fece innamorare da ragazzino, avrebbe voluto impadronirsi di un pubblico di imbecilli per trasformarli in pubblico intelligente tramite le occasioni a loro offerte in prima persona. Un’insaziabile vena protagonista lo rende ai nostri occhi labirintico, oltranzista, chiacchierone, perfino antipatico a cui non far mancare alcuni storcimenti di naso se è vero che lo sterminatore feldmaresciallo Göring (ce ne informa l’immancabile Scaraffia) amò molto Memorie di un baro e volle conoscerne l’autore.
Ma lo spirito francese e libertario di Guitry, unito alla fama conquistata con inequivocabile humour e charme (soprattutto, quest’ultimo, rivolto alle belle donne), gli facevano spesso ottenere la liberazione di prigionieri tenuti in carcere dagli occupanti tedeschi. Il trasporto del romanzo (uscito a puntate nel 1934 sulla rivista “Marianne”, settimanale letterario fondato da Gaston Gallimard) sullo schermo lo diverte come se avesse a che fare con un giocattolo: infatti così considerava il cinema, secondo la postfazione molto informata di Edgardo Franzosini. Questo mischiare realtà e teatro dentro la pellicola trovò in Truffaut, durante la Nouvelle Vague, un sostenitore convinto. Guitry era a conoscenza di quanto le sue ostentazioni trovassero l’ostilità di qualcuno, tuttavia continuò a trasmettere i propri spunti fino alla morte, avido com’era di esorbitanze metropolitane e spettacolarità esibite.
I capitoli del romanzo dedicati a Parigi e Montecarlo (Monaco) valgono sicuramente la lettura, senza contare l’elenco spiritoso dei metodi adottati allo scopo di turlupinare il banco di ogni casinò operante sulla faccia della terra. Parigi, per esempio, contiene tutte le Parigi che ognuno desidera incontrandole durante il girovagare. Tutti “paesotti”, e non quartieri, abitati da chi ne fa davvero parte per nascita, molto meno per adozione. Snobismo a spericolatezza, attitudini che con evidenza piacciono molto a quest’uomo nato a San Pietroburgo (di fronte alla prospettiva Nevskij) a cui non sfugge che per essere definiti davvero parigini bisogna meritare la caricatura da parte di qualcuno. Chissà se tuttora è ancora vero.
Ma è sullo “scoglio” monegasco – così Guitry definisce la geografia del luogo – che il protagonista e baro del romanzo trova una sorta di leggenda. Unici oggetti antichi ritrovati, alcune monete romane: spassoso per un luogo la cui attività principale è quella di far perdere gran quantità di soldi a assidui (e imbelli) frequentatori. Tutti nelle mani di croupier, nati tali per eredità. Lavoro non facile, a cui lo humour nero di Guitry dedica una messe di pagine eroganti uno spasso assicurato. Sacha mette in scena fino all’ultimo giorno la sua verve, montando i propri film nella camera da letto dove faceva bella figura di sé un imponente macchinario. Aiutato da morfina e medicinali nel combattere la malattia alla colonna vertebrale, muore a Parigi nell’estate del 1957. Come s’era preparato? Ecco: “Negare Dio è come privarsi dell’unico interesse che può avere la morte”.