Rye Curtis, un racconto di perdita e resilienza

Rye Curtis, Tutto il bene che si può, tr. Francesca Gatti, Bompiani, pp. 307, euro 18,00 stampa, euro 11,99 epub

“Una storia è di chi la racconta meglio.”

Questa è la storia di due donne, molto diverse tra loro per età, per il tipo di vita e di esperienze che hanno vissuto, per carattere. Il destino porta le loro vite a sfiorarsi a causa di un drammatico incidente, che in qualche modo determinerà un cambiamento in ognuna di loro.

Tutto il bene che si può è il primo romanzo del giovane scrittore texano Rye Curtis: un esordio considerato impressionante per la giovane età dell’autore, capace di essersi immedesimato in modo convincente in una donna anziana che si trova in una situazione fuori dal comune. La storia ha inizio in una data ben precisa, il 31 agosto 1984, quando il piccolo aereo da turismo, dove sta viaggiando la settantaduenne Cloris Waldrip insieme al marito Richard e al pilota, precipita sulle Bitterroot Mountains, nel nord-ovest degli Stati Uniti. Richard e il pilota muoiono, mentre Cloris, miracolosamente, ne esce illesa. Sarà lei stessa che racconterà la sua storia, di come decida di allontanarsi dall’aereo e di affrontare il lungo, impervio e pericoloso viaggio nella natura selvaggia che la riporterà a casa. Incontrerà animali più o meno selvaggi; affronterà il freddo e il caldo, la pioggia e il sole cocente; dovrà adattarsi alla situazione con un ritorno a una primordialità repressa dalla civiltà, e che Cloris riscopre quando il suo istinto di sopravvivenza avrà il sopravvento su ogni altro sentimento.

“Al giorno d’oggi anche cacciare è solo un gioco per gli uomini, non certo una necessità vitale in quest’epoca comoda. Non cacciano per fame, ma per noia. Ma credo siano molte le cose che fanno senza che la natura le richieda più.”

A fare da contraltare alla vicenda di Cloris c’è la ranger Debra Lewis, una trentasettenne divorziata che beve Merlot scadente in continuazione e vive nel suo alloggio di Guardia Forestale, circondata dai boschi. Quando Lewis riceve la notizia del probabile incidente aereo e iniziano le ricerche, lei è l’unica a credere che Cloris possa essere sopravvissuta, a dispetto di ogni ragionevole dubbio, ed è l’unica che insiste nel continuare le ricerche dell’anziana signora. La vicenda procede così su due piani contrapposti. Da una parte il racconto di Cloris, che a venti anni di distanza, mentre si trova in una casa di cura per anziani, ricorda quei giorni difficili. È un racconto lucido, preciso. Nella sua semplicità e umiltà, Cloris non ci risparmia nulla, nemmeno i suoi bisogni corporali, i modi in cui uccide piccoli animali che cucina con fuochi improvvisati, la necessità di mantenere la sua dignità di persona anche in una situazione disperata, i pensieri che vanno a momenti della sua vita e alle persone che ha incontrato e sulle quali non risparmia giudizi taglienti. Fino ad arrivare al misterioso uomo mascherato, che aiuta Cloris e che per un tratto ne diventa compagno “di viaggio” e sul quale aleggia l’ombra di un terribile crimine.

Dall’altra parte c’è il mondo della ranger Lewis, dove veniamo catapultati nel mezzo di situazioni surreali e grottesche che ricordano quelle filmate dai fratelli Cohen. Lewis è divorziata da un marito che ha altre due mogli, professionalmente fa coppia col ranger Claude, che vive di fianco a lei col suo golden retriever e sta ospitando un amico, Pete, personaggio strambo che si unisce alle loro ricerche. A questa compagnia di improbabili soccorritori si unisce il pilota di elicotteri Bloor, col quale Lewis ha una breve e sconclusionata relazione, e sua figlia Jill, una diciottenne che il suo stesso padre definisce un po’ ritardata, ma che alla fine si rivelerà la persona più matura tra questi adulti incapaci di portare avanti una qualsiasi parvenza di rapporto umano.

“La perdita di un compagno di vita è difficile da spiegare, ma posso dirvi che è un po’ come perdere il nome. Come se fossi rimasta solo tu a sapere come ti chiami in tutto l’universo. Non è una cosa su cui mi piace rimuginare.”

Rye Curtis ha definito Tutto il bene che si può un romanzo sulla perdita: la perdita reale, come quella di una persona cara – Cloris perde il marito, l’amato signor Waldrip. E la perdita più metaforica di se stessi, lo smarrimento esistenziale, che ritroviamo sia in Cloris, che si perde sulle Bitterroot Mountains e deve trovare la strada di casa, ma anche la via che la porti a vivere con se stessa dopo la morte del compagno; in Debra Lewis, confusa e incapace di comunicare con gli altri e di capire perché a volte le cose non vanno nel modo sperato o perché ci ritroviamo a fare cose che non vorremmo.

“Solo tu puoi decidere se vuoi essere controllata dall’impulso o dal rimpianto. Fai qualcosa e potrebbe essere la cosa giusta o quella sbagliata. Magari salta fuori che era quella giusta. Ma come fai a sapere? Magari salta fuori che non sapremo mai distinguere tra giusto e sbagliato perché non possiamo prevedere le conseguenze di tutte le nostre azioni ed è per questo che a volte le persone di mezza età vanno in crociera.”

Tutto il bene che si può è un debutto di particolare intensità e maturità, un romanzo eccentrico, una commedia nera in cui l’autore alterna, in modo narrativamente perfetto, momenti drammatici a situazioni pervase da umorismo surreale. Straordinarie le sue protagoniste, che, nonostante la loro fragile umanità, sono capaci di una resilienza commovente che le salva da un mondo difficile.