Mentre le truppe russe assediano Kiev ed entrano a Kharkiv, la seconda città, colpendo ovunque in Ucraina, PULP Libri si schiera contro la guerra, senza mai smettere di leggere, per capire e trasformare la realtà. Siamo lettori e lettrici di libri e attraverso di essi attraversiamo mondi, ne offriamo punti di vista e sguardi. E nel corso del tempo, nella seconda vita online, abbiamo dato spazio anche a scritture che provengono da quella sensibilissima area geografica che oggi è teatro di guerra. Ecco dunque l’idea di tracciare un percorso di letture.
Del resto, le opere dell’immaginario – finzione o non-fiction che siano – scrivono continuamente storie e Storia, riscrivono il mondo, sono incuranti di confini, sfidano multilinguismi e multiculturalismi – fagocitandoli e plasmandoli –, popolano frontiere là dove si vorrebbero deserti. E in quella vasta area che dalle rive del Dnepr alla Siberia, dal Mar Baltico al Mar Nero dove la Storia europea pulsa senza sosta, le scritture debordano dalle carte e dal Tempo.
Sin dai giorni che hanno preceduto l’invasione russa, il 24 febbraio 2022, dalle pagine della stampa, molti avvertivano dell’impatto psicologico durissimo che anche qui, forse al sicuro e comunque a centinaia di chilometri di distanza, questa guerra avrebbe avuto sulle nostre psiche già provata da due anni pieni di pandemia, chiusure, distanziamenti e impoverimenti. Un aspetto, quello psicologico – oltre a quello più evidente delle distruzioni materiali –, che non può essere sottovalutato durante una guerra. La psicoterapeuta Sara Reginella in La guerra fantasma nel cuore dell’Europa (Exòrma, 2021) ci racconta, dal campo, le conseguenze psichiche e relazionali del conflitto nel Donbass – centralissimo nella vicenda attuale – scoppiato nel 2014 sulle ferite e le macerie non ancora rimosse dei conflitti russo-ucraini risalenti alla Seconda guerra mondiale e, se possibile, acuiti dalla dissoluzione dell’URSS. Del resto, molto c’è ancora da scrivere di quei due momenti cruciali e la Storia ha bisogno di narratori geniali e narrazioni forti, come nel caso del monumentale Europe Central di William T. Vollmann (Mondadori, 2019), che attraversa proprio la geopolitica purulenta e dolorosa dei confini orientali dell’Europa, tra Germania e Russia. Vollmann che, del resto, non aveva mancato di accompagnarci nello sgangherato Vietnam sovietico di Afghanistan Picture Show: ovvero come ho salvato il mondo (minimum fax, 2020), mettendoci in guardia sulla tragicità degli avventurismi militari ma anche sull’ingenuità di certi sguardi americani ed europei su eventi non sempre facilmente leggibili.
A ben vedere, in questa storia, la Russia, con la sua enormità geografica e culturale e la sua storia dilaniata proprio nel rapporto Est/Ovest ed Asia/Europa, non può non giocare un ruolo predominante: provare a capire questo grande e irriducibile Paese è stato innanzi tutto lo sforzo dei suoi tanti interpreti che hanno provato a raccontarlo, ricorrendo con grande forza immaginifica ad allegorie e metafore. Così, la cosiddetta “anima russa” che emerge dai classici Racconti di Pietroburgo di Nikolaj Gogol’ (1842) (nella nuova traduzione di Paolo Nori, Marcos y Marcos, 2019) andrebbe letta insieme ai versi di giovinezza, morte e lotta politica di La principessa guerriera di Marina Cvetaeva (Sandro Teti Editore, 2020) e alle poesie che attraversano l’intera Russia di La notte bianca. Le poesie di Živago di Boris Pasternak (Biblioteca dei Leoni, 2016).
Inutile nasconderlo: c’è qualcosa di potentemente tragico e grottesco in quest’anima, come pure emerge dal Viaggio sentimentale dello studioso formalista Viktor Šklovskij, che si ritrova esule in Finlandia dopo essere rimasto ‘incastrato’ in rivolte anticomuniste a cavallo tra Prima guerra mondiale e Rivoluzione d’Ottobre. Contraddizioni e durezze che esondano dalle pagine dei diari di Uno scrittore in guerra di Vasilij Grossman (Adelphi, 2020). È l’eccentrico Eduard Limonov, figura ambigua di nazionalista ed esule e insieme nostalgico dell’URSS, ad esaltare fino ai giorni nostri le contraddizioni dell’anima russa che, nella posa di scrittore tardo bohemienne, racconta la decadenza della modernità post-sovietica in Zona industriale (Sandro Teti Editore, 2018). Una decadenza condita da forme di maledettismo intellettuale in tutto diverse dalla narrazione di Una passeggiata nella zona dello scrittore ucraino Markijan Kamyš (Keller, 2019), il quale, con un reportage sorprendente e denso di incontri imprevedibili, accompagna lettori e lettrici attraverso la cosiddetta Zona di Černobyl’, un’area in teoria inaccessibile intorno a quella centrale nucleare il cui reattore esplose nel 1986. Evento quello che certamente ha segnato una profonda cicatrice, carica di rivendicazioni e responsabilità – in quella parte d’Europa così sensibile al confine tra Ucraina, Bielorussia e Russia – appena quattro anni prima del Crollo dell’URSS e di quanto porta fino a noi, dentro l’attualità più stringente e tragica.
Andrebbe sottolineato che questo grumo di potente tragicità è insito forse nell’estrema varietà stessa del territorio russo dove quell’anima prismaticamente si moltiplica e dove il ghiaccio, i lavori forzati e i Gulag emergono dalla dolorosa saga familiare di Il confine dell’oblio di Srgej Lebedev (Keller, 2018). Saghe e racconti tra il pubblico e il privato raccolti anche da Jacek Hugo-Bader nel suo I diari della Kolyma (Keller, 2018). Ex prigionieri, dissidenti e veterani che popolano un’area geografica ai limiti dell’umanamente sopportabile, gravata da vicende storiche cariche di passioni e dolori.
E torniamo fatalmente tra Russia e Ucraina. Nel 1961, il grande poeta Evgenij Evtušenko che viene accompagnato dall’amico Anatolij Kuznecov a Babij Jar, alla periferia a nord-ovest di Kiev: lì, vent’anni prima, Kuznecov ha assistito al massacro di decine di migliaia di ebrei da parte delle truppe naziste tedesche, un fatto che emerse nell’URSS solo nel 1976 a causa delle persecuzioni antisemite successive di matrice staliniana. Ancora un movimento nel cuore delle contraddizioni storiche che la scrittura di un romanzo come Babij Jar (Adelphi, 2019) che, iniziando con la frase “Tutto questo libro è verità”, ci dice quanto l’invenzione letteraria sia così necessaria a farci entrare nella Storia del presente. Un presente nel quale, occorre sottolinearlo, le relazioni tra Russia, Ucraina ed Europa occidentale sono anche fondate su catene migratorie decennali e lampanti (per quanto coinvolgessero uomini, donne e bambini in fuga da altre guerre, ancora più a sud-est) nell’ennesima Crisi dei rifugiati di questi mesi al confine tra Bielorussia e Polonia. A raccontarcele, ispirandosi proprio allo stile narrativo del racconto di Anton Čechov, è Giulia Corsalini nel suo La lettrice di Čechov (nottetempo, 2018) che narra dei viaggi tra Ucraina e Italia di Nina, una laurea in Letteratura russa in patria e un lavoro da badante in Italia e la promessa di un miglioramento professionale.
I tanti fili conflittuali – storici, linguistici, culturali, economici – compongono una trama complessa e andrebbero forse riletti sotto la lente della fine del vecchio imperialismo e del postcolonialismo se, riprendendo l’illuminante intervento dell’ambasciatore del Kenya alle Nazioni Unite durante la discussione sulla crisi ucraina non possiamo far finta che le tragedie di oggi non siano il frutto del colonialismo e dell’imperialismo di ieri e tuttavia nessuna forma di riconquista e/o di riunione di pezzi di terre e culture separate possono giustificare qualsiasi guerra.
All’indomani del crollo dell’URSS, nel 1993, il grande critico palestinese-americano Edward W. Said nel suo Cultura e Imperialismo. Letteratura e consenso nel progetto culturale dell’Occidente (Gamberetti editrice, 1998) metteva in guardia che futuro e libertà sarebbero state la posta in gioco difficilissima nelle resistenze a nuove forme di dominio in un contesto in cui migrazioni e micro-conflitti diffusi avrebbero dominato la lenta inesorabile ma non indolore fine degli imperi europei (sotto l’ombrello del monopolio nordamericano del potere globale). La Russia di Putin, nel suo rapporto delicatissimo con il resto dell’Europa sul suo fianco occidentale, è certamente parte di questi imperi la cui dissoluzione continua a produrre mostri e mostruosità. In Mediterraneo Blues (Tamu, 2020), Iain Chambers parla di “malinconia postcoloniale”: un sentimento da abitare proponendo continuamente delle reinterpretazioni della memoria e la riscrittura delle sue ferite per non cedere ad una scrittura unica e monologante della Storia. Bisogna, insomma, continuare a tradurre: ascoltare, resistere, provare a mediare. Ed è, in fondo, questo il lavoro infinito della scrittura e della lettura.