Lacrime bianche / ferite scure si apre con una necessaria nota dell’autrice sulla terminologia usata nel libro al fine di evitare fraintendimenti. Quando Ruby Hamad parla di “donne bianche” e di “donne nere” i termini non sono descrittivi ma politici: non sta parlando davvero del colore della pelle ma di coloro che beneficiano della bianchezza intesa come privilegio razziale, e quando parla di nero o marrone intende coloro che ne sono escluse/i in vari gradi secondo un confine in continuo movimento e di volta in volta rideterminato dalla colonialità globale in cui la razza (ovviamente non intesa in senso biologico ma come imposizione sociale) è il criterio fondamentale per la distribuzione della popolazione mondiale secondo ranghi, luoghi e ruoli nella struttura sociale e del potere. Basti pensare – scrive Hamad – che gli italiani o gli irlandesi immigrati in America per lungo tempo non erano considerati propriamente bianchi.
Attraverso le testimonianze, un’accurata ricostruzione storica, la propria esperienza personale e il ricorso alla cultura pop del cinema e delle serie TV, Hamad ha scritto un aperto atto di accusa al femminismo bianco liberale incolpato di non voler fare i conti con il proprio passato coloniale in cui le donne hanno esercitato – seppur da subalterne rispetto agli uomini – un potere e un ruolo fondamentale nel fissare gli standard dell’umanità nel suo complesso, incarnati nell’uomo bianco, ma anche nelle donne bianche. Non fare i conti con il passato significa continuare a esercitare e perpetuare quel potere e pensare al razzismo solo come a un comportamento individuale e non come a un elemento fondamentale della costruzione binaria della identità femminile in cui alle donne bianche è stata riservata la parte di “damigella in pericolo” mentre alle nere la parte selvaggia e in definitiva subumana.
Dalla schiavitù al linciaggio e all’allontanamento forzato di bambini indigeni, le donne bianche sono state complici degli uomini bianchi nel razzismo e nella violenza, con il pretesto di proteggere la femminilità bianca. L’autrice esamina come questa eredità di secoli di violenza razziale e colonialismo da parte dei bianchi si manifesti ancora oggi nella vita di donne nere, asiatiche, latine, indiane, musulmane, arabe e indigene di tutto il mondo.
“Lacrime bianche/cicatrici marroni” sostiene quindi che le lacrime delle donne bianche continuano a segnalare potere, non debolezza. Il pianto rimanda a emozione, sincerità, debolezza e vittimismo quindi se mi fai piangere sei tu a essere aggressiva, accusarmi di razzismo, non adeguata. Quello che tutte le interlocutrici e la stessa Hamad (di origine araba e residente in Australia) hanno provato sul lavoro e nelle relazioni sociali appena hanno osato mettere in discussione il potere e in dubbio il razzismo implicito delle loro interlocutrici, colleghe di lavoro o dirigenti sicure della propria presunta moralità, innocenza e benevolenza.
Come non pensare – qui in Italia – alle lacrime della ministra Elsa Fornero quando ha reso noto a milioni di italiani che d’ora in avanti sarebbero andati in pensione ben più tardi. La loro vita sarebbe cambiata (in peggio) e lei (che aveva avuto il potere di farlo) versava lacrime di empatia e comprensione. Una vera forma di bullismo. L’esempio della bianca Fornero – ma di converso si potrebbe pensare, ad esempio, alla nera Condoleezza Rice Segretaria di stato di Bush e sostenitrice dell’invasione dell’Iraq – introduce di sguincio un terzo elemento oltre al genere e al razzismo, vale a dire la classe sociale di appartenenza che è trasversale alla razza e al genere. Alla questione, Hamad dedica un unico capitolo “L’ascesa del razzismo legittimo. Dal Classawhashing alla trappola di Lovejoy” in cui accusa giustamente la sinistra progressista quando nasconde il legame tra razza e classe in nome dell’unità di classe. Bene ha fatto Nadeesha Uyangoda nella sua prefazione a riprendere e mettere in rilievo l’elemento della classe sociale quando ricorda che il “contrario di oppressione non è femminismo bianco, e per alcune di noi non è nemmeno solo il patriarcato”. Il riferimento è alla razializzazione e alla “sessualizzazione di alcuni lavori (domestiche, colf, badanti, sex worker)” che va di pari passo con “l’emancipazione delle donna bianche dal lavoro di cura” affidato alle donne di colore o provenienti dal Sud globale. Basti pensare al fatto che quando diciamo Ucraina aggiungiamo in automatico il termine badante a riprova che non bastano gli occhi azzurri e la pelle bianca per uscire dalle stratificazioni dello sfruttamento.
Lo stereotipo della “damigella in pericolo” bisognosa di difesa contro il nero o lo straniero stupratore si intuisce subito, essendo usato universalmente e anche in Italia dalle politiche reazionarie (ma non solo) contro i migranti i nostri “neri”. Non c’è molta differenza fra le parole di Meloni che usa spregiudicatamente il video di uno stupro durante la campagna elettorale e il commento della progressista Serracchiani quando nel 2017 sosteneva che uno stupro è più grave se commesso da un richiedente asilo.
Altrettanto terribile negli effetti è il “femminismo materno” e la sua pretesa di sapere cosa è meglio per le donne e i bambini stranieri o di colore. È con questa pretesa – come ricostruisce l’autrice – che le donne bianche riconoscendosi nelle nozioni occidentali di civiltà hanno approvato e guidato la massiccia sottrazione dei bambini indigeni dalle loro comunità in Australia e Nord America fra la fine dell’800 e la prima metà del ‘900, hanno fatto pressioni per la segregazione scolastica, l’eugenetica e addirittura fondato una sezione femminile del KKK.
Se all’inizio le femministe bianche americane hanno sostenuto l’emancipazione dei neri e la fine della schiavitù, identificata come una condizione uguale alla schiavitù domestica delle donne al momento dalla fine dello schiavismo, in larga parte si sono schierate contro il voto agli schiavi e hanno contribuito ad alimentare lo stereotipo della sessualità fuori controllo della popolazione nera e quindi la necessità di difendersi.
Lacrime bianche / ferite scure vuole anche essere una risposta al perché tante donne nere o di colore non si riconoscano nel femminismo mainstream o rifiutino di definirsi femministe.