Del resto la poesia ha facoltà di varcare spazi geografici precisi, anche quando va contro la storia o gli scrittori interpretano male i tempi. L’aria si fa tesa, sembra diversa dall’epoca della guerra dei Balcani. Sarebbe interessante sapere dove sono tutte le anime, quelle passate e quelle ancora vive. E come sono adesso le strade sconvolte dalle mine, se i fili spinati si sono arrugginiti o distrutti per virtù meteorologica. Con queste domande tre poeti si sono messi in viaggio, accettando l’invito del REFEST (Immagini e parole sui percorsi dei rifugiati), in un freddo gennaio del 2018 attraversando Bosnia Erzegovina e Croazia.
Come tradurre la neve è un libro che riporta tre esperienze caratterizzate da intenti poetici e diaristici, tre taccuini la cui creazione è prima di tutto esistenziale, per proseguire in qualcosa di fondativo nella scrittura. Passo dopo passo, con la comparsa della neve, gli autori hanno curato scarpe e occhi perché nulla sfuggisse: è stato l’assetto del cammino a corroborare mente e propensione documentaria.
Maria Grazia Calandrone, con Le case infinite, avverte subito che la guerra in quei luoghi non è mai finita, che le regioni percorse assomigliano al paesaggio del dopoguerra italiano, quando gli alleati se ne andarono e cemento e calcestruzzo sostituirono le pietre antiche. Ma è difficile salire il tempo, non resta che mettersi di fronte alla severità di un mondo scorticato e lasciarsi pervadere dall’aria contenente tutta la memoria. Nella prosa poetica di Il seme della dimenticanza Alessandro Anil prova a dividere gioie e dolori personali con quanto gli si para davanti, dando voce a coloro che da anni cercano di ritrovare la vita e si chiedono come riportare alla luce ciò che è svanito sotto le macerie, fra l’edera e la neve. L’autore si chiede come i ragazzi possano tornare e contendere agli animali l’esistenza. Ma salgono gradini, verso i primi piani dei palazzi dove non c’è anima viva. Nessuno abita più i piani alti. Nel Taccuino croato Franca Mancinelli descrive le difficoltà di viaggiare lungo confini che si sono fatti duri, dove i controlli allarmano e la neve di gennaio fa da filtro al paesaggio della rotta balcanica. La coltre cancella le tracce di tutti, spegne i bivacchi e ostacola la visione dei documenti e delle carte necessarie.
La volontà di vedere s’interrompe quando mancano i passaporti europei agli amici bosniaci. I paesi sono tagliati in due da dogane silenziose e solitarie, ci sono persone travisate per i loro tratti somatici, riunioni politiche apicali frammiste a campi rifugiati dove in mezzo a borracce e ciotole d’alluminio si percepisce lo spiffero del vuoto epocale. I poeti hanno attraversato la terra verso un’altra riva di mare, si trovano davanti a qualcosa che dovranno cercare di disincagliare. Le loro testimonianze scritte appaiono nello stesso momento della visione, ed è questo il significato profondo di un libro da sistemare ben bene nelle nostre borse o tasche.
Nel suo insieme i Tre sentieri incrociano gli sguardi senza filtri d’opportunità, hanno il significato dentro le parole di poetiche fertili, saggiano la direzione verso la verità senza blocchi ideologici e costrizioni partigiane. È sperabile che la gioventù si metta in cammino sui territori almeno quanto fa il Danubio per nove paesi. E infine la novità qui è il risorgere di voci lontane e pressoché dimenticate, la volontà di raccontare un’altra storia, quella di molti anni: basta guardarla lì incisa, nel paesaggio esplorato limpidamente da tre testimoni durante il viaggio con i loro compagni natii di quei luoghi dell’altra riva.