Romana Petri, autrice di romanzi che hanno qualcosa di imperiale nei temi e negli argomenti (padri, cani e non ultima – anzi – una biografia non si sa quanto apocrifa di Manganelli), e di certo imparentata con una classicità che in altri lidi risulta in fase di svanimento, per non dir di peggio, dà ulteriore prova in questi dodici racconti (o meglio, storie narrate) alle prese con il sentimento controverso per eccellenza: la maternità. Petri le attribuisce un aggettivo per nulla “facile”, verso cui possiamo immaginare molte madri non faranno mancare reazioni discordi e alla fine del tutto avverse. Non sarà certo un caso che il libro prende avvio da quella “mostruosità” che alcuni anni addietro calò dal cielo sui tetti di una cittadina tranquilla come Cogne. Diciamo Cogne, e già chiunque capisce di che si tratta. Tutti preparati, tutti impreparati, anche troppo, per le vie dell’etere televisivo e per le quintalate di carta stampata dalle rotative. Franzoni decanta dalla scrittura di Petri con quella anomalia gelida – venuta sulla terra come sorta di capriccio ostile e punizione per oscura malefatta – a cui nessuno di noi è sfuggito. Parla secondo un copione personale ben fatto, dove il mostro non sa d’essere tale o ne è talmente convinto (e preso dalla parte) da cogliersi fermo come le rocce sovrastanti, anzi fermissimo nel momento in cui – e la sceneggiatura qui sorpassa la soglia più alta per efficacia e assolutezza) la madre raddoppia, triplica, la sua condizione: a figlio morto subentra un altro figlio, nato dal sangue del primo.
Basterebbe questo affinché la bravura della scrittrice allargasse il nostro senso verso le avventure cui il mondo ci porta, smaccate, eccitanti, simboliche, e infine terribilmente reali, tanto che infine oltrepassano le transazioni verbali cogliendoci alle spalle, eversive come può esserlo un pugnale inopinatamente conficcato fra le scapole. Ma nel libro c’è di più, gli enigmi classici sorpassano alla grande le ingiuriose lagne digitali che fuoriescono da monitor e schermi hd: e si sa come la classicità possa portare alla sapienza chi già ne saggia da tempo forme e invenzioni di linguaggio. Donna nell’universo femminile, dunque sapiente ben oltre i miseri panni di maschi ossessionati e imbelli. Al dunque, la ragione in certi casi non sta da nessuna parte, storia dopo storia ci si chiede dove stiano i rapporti, anche quelli informativi che dovrebbero far da base a convivenze amabili o coatte.
Petri sorpassa per conoscenza perseverante – alla larga da verbali e cerimonie – quanto noi immaginiamo, sta lontana dalle conseguenze di certe azioni, lei trascrive il film a cui si è rivolta sotto l’egida della propria idea di linguaggio: film venuto al mondo tramite furiose genitrici registe di se stesse nell’estro di ripiegamenti cerebrali. Che siano invenzioni o fatti diventati cronache nel giro di pochi minuti, per qualche tempo ci troviamo a passeggiare con questo libro accanto alla follia errante nel luogo più protetto che (apparentemente) esista, quello che caratterizza ogni donna nell’esclusiva durata della “maternità”. Vani i tentativi di comprensione per noi uomini, ma quanto è garbata e filiale la resa di queste storie narrate nel pieno dei grovigli dove il nero improvvisamente irrompe, la terra dei veleni si avvicina minacciosa e il velo della mostruosità si fa sempre più sottile. Petri non distoglie lo sguardo da questo velo, mai in nessuna sua opera, men che meno in Mostruosa maternità.