Dal cuore della Palude

Romana Petri, Cuore di furia, Marsilio, pp. 160, euro 15,00 stampa, euro 9,99 epub

“Se ogni discorso muove da un presupposto”, possibile che si possa discendere a un personaggio, a più d’uno nel caso di questo romanzo, e con amore (maggiore avversione, probabilmente) alla memoria immaginativa che si ha d’un padre. Sbagliata che sia, volontaria o involontaria, suddetta memoria riconduce a un uomo, scrittore esistito o forse no. Le cui impronte, però, sono tra noi, periodicamente ripubblicate dal meno frugale degli editori, tanto da ripresentare in auge resti archeologici, tavole e tavolette e reperti divini anteriori all’Odissea o a Gilgamesh.

Inutile nascondersi dietro un corpo a forma di pera, meglio togliersi subito d’impaccio e proclamare presente, e vivo, al suon delle di lui parole, l’affabulante e menzognero Giorgio Manganelli. Ancora lui, che da quando è morto non ci lascia in pace e annota ancora l’intero universo, anche attraverso l’opera altrui degnissima come l’attuale Cuore di Furia di Romana Petri, a cui è toccato in sorte l’essere figlia letteraria del Manga.

In una Spagna “alternativa”, più o meno distopica, si muove l’altrettanto alternativa persona dello scrittore controverso che vive da magazziniere in un deposito di gramaglie, non vede nessuno, ma improvvisamente si trasforma nel più importante scrittore vivente. Scappato da Barcellona in trattore verso Siviglia, Jorge (questo il nome) ha un personale senso di marcia, scrive da par suo dopo aver molto letto, e nulla vuol avere a che fare con figlia, moglie e altrettanti rimbambiti domestici. Ma la figlia lo raggiunge anni dopo, col nome che l’autrice le ha dato: Norama Tripe. Anagramma di Romana Petri, si noterà. E fatto altrettanto poco comune, si noterà il grandissimo omaggio, lievemente mascherato, che fuoriesce dai dettagli e, più in generale, dallo sconcerto acceso nel romanzo.

Chiosa vorrebbe descrizione d’ulteriori particolari, non ultimo uno sguardo attento all’amica, forse amante o badante, Dolores, l’unica a cui Jorge mostri (talvolta) affetto o vaghe emozioni amorose. L’unica a cui affida, in fine di storia, la cura delle opere e della massa di taccuini, scartafacci, cartacce accumulate nella propria impronunciabile residenza. Massa che dovrà, alla morte, essere distrutta. Ma qui conviene smetterla con gli spoiler, e adeguarci ai sofismi, agli incontri letterari e crucciati, pettegoli o reali, dominati dalla menzogna o più raramente veritieri, diffusi in tutto il romanzo come se il vero Manganelli emergesse all’improvviso dalle onde proclamando la sua ilare tragedia precipitando all’inverso nella schiuma del mondo.

Il lettore alle prese con questo memorabile romanzo non s’innervosirà, sarà dilettevole turista di quel che Petri racconta come se il vero s’abbeverasse alla biografia e non quest’ultima alle supposizioni e al gossip che lungamente hanno angustiato il padre letterario. Altri tempi. Altre stanze, si dirà. Il divertimento si maneggia nonostante esigue informazioni, all’oggi più reperibili in certi poeti (di più, poetesse) che sono state amiche del Manganelli recensore o censore o scrutatore. Documenti notarili ahimè abbandonati, bensì scritti occasionali da trarre dalla famigerata Palude.

È chiaro, ancora una volta, come la veritiera e avventurosa vita, per l’autrice si fondi sul racconto tremendo e possessivo a cui le diverse esistenze sottostanno, e come la materia reale possa essere presa d’assalto piegandola alle ragioni verbali, alla consistente sodezza, scènica, dello scrittore. Nessuno oggi manda all’aria, come Romana Petri, tutte le teorie sul romanzo: ce n’eravamo accorti già con Il mio cane del Klondike (Neri Pozza Editore, 2017), sfacciatamente in nome delle proposizioni: nonchalance di sommo gusto, dove perfino il comico si ritaglia uno spazio. In che modo diverso tutto questo poteva accadere, se non nel libro in cui lo stesso Manganelli spunta dal bordo impaginato inchinandosi al “gioco enigmistico”.