Rocco Casalino, Il portavoce

Rocco Casalino, Il portavoce, Piemme, pp. 267, euro 17,90 stampa, euro 9,99 ebook

Fa uno strano effetto leggere Il portavoce di Rocco Casalino dopo l’ascesa di Mario Draghi al governo. Appena uscito, è un libro che rischia di invecchiare male nelle sue istanze propagandistiche, ma il percorso esistenziale dell’eminenza grigia dietro la retorica dei governi Conte non può che restare interessante, soprattutto se narrato in prima persona. Se si riesce a sopportare il basso continuo di retorica maoista sul Movimento Cinque Stelle, l’opera presenta spunti su vari livelli di lettura e colpisce per la sua schiettezza. Intendiamoci: Casalino è un esperto di comunicazione e tutto è sicuramente calibrato in modo da apparire sincero, eppure – al di là di vari omissis già resi noti dalla stampa, come il suo periodo da conduttore a Betting Channel – l’impressione generale è che una buona dose dei fatti del libro sia autentica. Bisogna ovviamente saper leggere tra le righe, ma i meccanismi opachi e ambigui della strategia del Movimento nell’ultimo decennio sono esposti senza vergogna e persino rivendicati come grandi successi. Un partito fedele alla linea, anche se la linea non c’è, o meglio è dettata da considerazioni di varia natura: un anatra-coniglio in cui figure come Casalino acquistano maggiore importanza, man mano che gli equilibrismi si fanno più intricati. Sbirciare sotto il tendone della macchina grillina, anche se per pochi squarci, è già motivo sufficiente a giustificare la lettura, eppure si tratta della parte meno consistente dell’opera.

La parabola di Rocco Casalino viene esposta in cento brevi capitoli inseriti in una struttura circolare – apre con la morte del padre e chiude con Rocco che va sulla sua tomba un quarto di secolo dopo per perdonarlo. In mezzo: il Salento retrogrado in cui si sposano i genitori, l’emigrazione in Germania (dove nasce l’autore) segnata dalle violenze del padre e dal trauma di sentirsi straniero in patria, per poi passare attraverso il riscatto negli studi, la militanza in Rifondazione Comunista, la gloria televisiva con il Grande Fratello e infine la rinascita faticosa come elemento di spicco di uno dei principali partiti italiani. Rispetto ai soliti flussi di coscienza dei personaggi famosi sbobinati su carta, il libro di Casalino sembra più solido e l’abbondanza di dettagli anche spiacevoli, o poco lodevoli, sulla sua vita personale contribuisce a rendere credibile la narrazione. Si aggiunga la mitomania narcisista sullo sfondo, immancabile ingrediente di questo genere di editoria: la presenza evanescente di Lele Mora, personaggio crossover negli universi narrativi di Rocco Casalino e Fabrizio Corona, è sempre garanzia di titanismo tamarro.

Un aspetto apprezzabile è inoltre la struttura bilanciata del libro: l’esperienza del Grande Fratello si colloca circa a metà e il famigerato video delle Iene, in cui si lamenta del cattivo odore dei poveri, segna la cesura con la sezione inerente alla sua storia nel Movimento. L’opera ha quindi tre movimenti: la storia di un parvenu e del suo disperato bisogno di primeggiare e di essere amato; la presa di coscienza della vacuità del successo, successiva alla vergogna (vera o presunta non ci è dato sapere) di vedersi nello specchio deformante del video delle Iene; infine, la reinvenzione di sé stesso grazie all’impegno nel Movimento e una sopraggiunta maturità nei confronti dei propri nodi esistenziali, dall’orientamento sessuale, al trauma edipico ereditato da un’infanzia non pienamente risolta.

Leggendo Il portavoce, viene da chiedersi se Rocco Casalino abbia mai letto Lyndon, un meraviglioso racconto di David Foster Wallace in cui la presidenza di Lyndon Johnson viene narrata dal punto di vista di un suo collaboratore omosessuale. Se fino al raggiungimento del successo con il Grande Fratello, il Bildungsroman di Casalino si muove su binari dickensiani (con qualche venatura alla John Fante), la seconda parte del Portavoce ricorda appunto alcune sfumature di Lyndon: in versione grottesca, sia chiaro, ma il rapporto (fra il filiale e l’adorante) dell’autore con i surrogati paterni di Gianroberto Casaleggio e, soprattutto, Giuseppe Conte presenta affascinanti consonanze.

Prima dell’epilogo, Casalino affronta in una digressione la sua educazione sessuale e il rapporto travagliato con la sua omosessualità – a lungo mascherata da bisessualità – e la comunità gay. Nonostante un ateismo ribadito orgogliosamente lungo tutto il libro, l’ideale dell’autore è il tripudio dell’italianissima ipocrisia cattolica del “si fa e non si dice”, che rende l’esperienza omosessuale degna di essere vissuta proprio in virtù della sua alterità segreta: tanto estetismo per giustificare il suo disinteresse verso le istanze di chi vorrebbe vivere apertamente il proprio orientamento sessuale. Senza contare che non viene sufficientemente evidenziato come quella stessa ipocrisia sessuale vagheggiata da Casalino abbia sull’altro lato della medaglia le ragioni della sua vicenda familiare.

La conclusione circolare, come si accennava, tramite la scena assolutamente letteraria (e probabilmente fittizia) del venticinquesimo anniversario della morte del padre – il 10 agosto, con tanto di parallelismo pascoliano, una delle svariate citazioni più o meno colte della biografia – sarebbe soddisfacente se non ci fosse una incomprensibile appendice in cui sono riportate due lettere dell’autore, di cui una a Barbara d’Urso, nelle quali, qualora ce ne fosse ancora bisogno, viene ribadito come il portavoce Casalino non sia più il Rocco del Grande Fratello. Anche se così avremmo preferito ricordarlo.