Quasi un vaccino

Roberto Marchesini, Essere un corpo, Mucchi Editore, 2020, pp. 174, euro 16,00 stampa

Umano, troppo post-umano: parafrasando titolo e sottotitolo della famosa opera di Friedrich Nietzsche, il nuovo libro di Roberto Marchesini si presenta come Un libro per corpi liberi. “Corpi” e non, in direzione nieztscheana e già superomistica, “spiriti”: Essere un corpo è esercizio e insieme epifania, liberata e liberatoria, del corpo, diversamente e al di là dei processi di intellettualizzazione che ne hanno appiattito l’interpretazione su un cliché, ora biologico ora macchinico. Inoltre, e per terminare con i rapporti del libro di Marchesini – assai esigui, in realtà, dal punto di vista filosofico – con l’opera di Nietzsche, Essere un corpo trova la sua miglior collocazione in una nuova versione di quella Krisis che muoveva il ritmo del pensiero nietzscheano. Nella presente crisi pandemica, infatti, ha un particolare rilievo quel crinale tra umano e post-umano che Marchesini esplora a tutto campo a partire dal suo originale territorio d’elezione, ossia l’intersezione tra etologia filosofica, zooantropologia e, appunto, riflessione posthuman (dove il “post-umano”, a dire il vero, non è mai “troppo”, ma sempre ben bilanciato).

In questo senso, allora, è senz’alcuna ostentazione, bensì per comprensibili ragioni di coerenza, che Marchesini, in queste pagine, rinvia costantemente alle sue opere precedenti – Etologia filosofica. Alla ricerca della soggettività animale (Mimesis, 2016) e Eco-ontologia. L’essere come relazione (Safarà Editore , 2018), in particolare – mostrando come Essere un corpo si possa considerare, se non come una summa, certamente come un’apertura a prisma della poetica filosofica dell’autore.

A questo proposito, poi, la definizione di “poetica filosofica” non ci sembra un azzardo, poiché se ne possono rintracciare i motivi a livello tanto stilistico quanto contenutistico. Da un lato, il saggio si muove senza difficoltà, o soluzione di continuità, tra fasi più analitiche e fasi più liricheggianti – ricordando, in questo, la prosa narrativa di Marchesini, con ogni probabilità influenzata anche dalla frequentazione bolognese di intellettuali e poeti come Giorgio Celli e Roberto Roversi. D’altra parte, è l’intera trattazione della tecnopoiesi che non presenta soltanto risvolti analitici – nella costruzione di una piattaforma filosofica che non si risolva, banalmente, nella mera ricerca di un punto di equilibrio tra il ripudio vetero-umanistico e la celebrazione acritica della tecnica – bensì punta a rivelare in ogni suo aspetto quello che, per usare le stesse parole di Marchesini, è l’“atto ideativo, produttivo e introiettivo della techne”.

Come si specifica bene nella prima sezione del saggio, questo non significa affermare la bontà tout court dell’autopoiesi del corpo; quest’ultima si può verificare soltanto nell’eteronomia che è propria della dimensione predicativa e relazionale alla quale i corpi sono da sempre inclini e nella quale sono sempre immersi: “se il corpo prevede ontologicamente una donazione, un fare posto al mondo”, scrive Marchesini, “l’esito dell’accoglienza, al contrario, non è mai presupposto”. Tale esito va oltre la proiezione relazionale e tocca l’alterità, producendo quella “epifania animale” che Marchesini aveva già esplorato, nel saggio omonimo del 2014, come base necessaria di ogni prodotto compiutamente culturale.

Conseguenza logica di questo primo passo è poi l’interrogazione delle soglie del corpo, quelle che ne caratterizzano, cioè, la condizione senziente. Termine spesso indagato nell’ambito dell’etologia filosofica, la senzienza, per Marchesini, “non indica l’esposizione al dolore, bensì la capacità di provare qualcosa nei confronti di ciò che ci circonda”, sulla base di un passato che è da sempre inscritto nel corpo, configurando ogni istanza del sentire come risonanza. La senzienza definisce l’esserci; siccome, poi, “non è possibile pensare all’esserci senza fare riferimento alla configurazione temporale del sentire, perché è nel tempo preciso e predefinito del sentire, che il soggetto si posiziona nella situazione”, ne scandisce anche il ritmo. Su questa parola, che chiude la seconda sezione, si fonda una concezione dell’estetica come “forma del sentire” e dunque anche come “espressione della nostra animalità” – un’espressione che non si appiattisce su coordinate esclusivamente emozionali o, ad esempio, di sola pertinenza sociobiologica, inquadrando entrambe, invece, in un sistema teorico più complesso e più convincente.

Da queste considerazioni sulla condizione senziente derivano le successive – e, all’interno del libro, cruciali – riflessioni sul desiderio, inteso come “tensione all’unione, il sentirsi trasportato verso le alterità, il riconoscerle (paradossalmente) come non alterità”. Nella terza sezione, Marchesini rileva gli effetti nefasti del processo culturale di desomatizzazione del desiderio, che si è da sempre caratterizzato come tentativo – a tutti gli effetti paradossale, se non anche controproducente – di emancipazione umanistica dall’animalità. La configurazione del desiderio come carenza, già di ascendenza platonica, comincia qui ad essere rovesciata, mostrando come, in una prospettiva di tecnopoiesi del corpo, la mancanza e il bisogno siano conseguenze, e non cause, di ciascuna tecnomediazione.

Torna su quest’ultimo punto la quinta parte del libro, dopo un “Elogio della carne” che riattiva la riflessione decisiva, in questo senso, di Merleau-Ponty si conclude con una rilettura del mito di Epimeteo e Prometeo che risulta essenziale per parlare, infine, de “Il corpo ibridato”. È opportuno, infatti, che l’interpretazione del mito di Epimeteo e Prometeo si discosti dal classico rifiuto della techne che è sempre stato al centro della cultura umanistica occidentale, riconoscendo invece “nella tecnopoiesi nient’altro che una delle tante forme di copula che caratterizzano il nostro sentire e desiderare”. Certo, non si tratta di una visione neutrale o neutralizzante della techne: quest’ultima, per citare parole di Marchesini che oggi hanno una particolare eco trasformativa, “è come un virus che penetra nella cellula e ne riprogramma la funzione. La techne in altre parole inaugura nuovi connotati nell’essere umano, ma non solo. La techne interviene su tutta l’ontologia umana metamorfizzando non solo i predicati ma altresì introducendo nuovi fini”.

Se, come si è visto, senzienza e desiderio sono concetti relazionali, essi possono esprimere tensione, ma non carenza, né esigenza (spesso fallimentare) di compensazione: è soltanto in questo senso che la tecnopoiesi si può presentare positivamente, ma senza per questo che i suoi esiti siano stati stabiliti a priori o in modo acritico; attraverso l’autopoiesi si esprimerà così quell’”innamoramento del mondo” che è parte costitutiva dell’“essere un corpo”.

Indagare questo innamoramento è, sull’esempio di Marchesini, una nuova prova dell’eros della conoscenza, di discendenza, anche in questo caso, platonica. Consente di andare incontro a ogni tecnomediazione futura – una possibilità ora sempre più palpabile, in tempo di pandemia – con la consapevolezza di procedere all’inoculazione di un virus che ci riprogramma e al contempo contrasta con altre viralità. Virus contro virus: se si è un corpo, questo è quasi un vaccino.

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