Un viaggio nella mente di Clarice Lispector, sinuoso come le curve dell’Aar a Berna, dove la scrittrice approda nella primavera del 1946 al seguito del marito, il diplomatico Maury Gurgel Valente. Roberto Francavilla, ordinario di Letteratura portoghese e brasiliana all’università di Genova, traduttore e profondo conoscitore dell’opera di Lispector, colloca il suo romanzo di esordio durante il periodo bernese della scrittrice. Il libro è scandito dal ritmo delle stagioni, in otto capitoli che coprono il biennio 1946-1948. Ma quale tempo scorre dentro la testa di Clarice? Quello degli impassibili cittadini bernesi, muti soprabiti ambulanti dal cuore d’orologio a cucù? Quello dei vedutisti, che ritraggono in accattivanti cartoline i paesaggi pacifici e maestosi delle montagne svizzere, ora innevate ora fiorite?
Tanto la struttura del libro promette ordine, ciclicità, tanto emerge il tempo scardinato che sbriciola i pensieri della scrittrice, scissa tra una realtà vacante e una realtà che soffoca. Da un lato, la saudade del Brasile adottivo, l’allontanamento dal marito, ma anche e forse più di tutto l’esposizione per nascita all’estraneità, per lei nata ai ricordi nello sradicamento della famiglia dallo shtetl di Cecel’nyk; dall’altro, una città ordinata e “senza demoni”, costretta tra montagne e scavata da un serpente d’acqua, l’Aar, tentatore di suicidi.
“La mia geografia è il mio corpo, non questa città”, pensa Clarice, e indugia dal ponte Kirchenfeld, sporgendosi sui 37 metri che la separano dall’acqua. Il richiamo dell’acqua, l’attrazione e la repulsione nei confronti di questo elemento, costituiscono un vero e proprio leitmotiv del romanzo. L’acqua preme e cerca di aprire varchi ovunque nella testa di Clarice: è il naufragio del suo matrimonio, che lei teme e prevede; è lo spettro del fallimento del suo essere scrittrice; è, al tempo stesso, abbandono desiderato al ricongiungimento di sé, al suo essere donna. A questo assedio opporrà la necessità di erigere ostruzioni, “arginare, rincorrere, tappare con i palmi delle mani le falle di uno scafo naufragato”. È seducente pensare che il libro che Lispector scriverà proprio durante questo soggiorno bernese, La città assediata (recentemente edito da Adelphi nella traduzione di Roberto Francavilla e Elena Manzato), sia il frutto di questo gesto: tappare una falla con i palmi delle mani, piuttosto che martellar di dita sulla macchina da scrivere.
Attorno alla “città assediata” della mente di Clarice si agitano fantasmi, fantasie, personaggi, epistolari: l’amore impossibile nelle lettere al poeta Lúcio Cardoso, il ricordo di Ungaretti, conosciuto a Roma, e la natura, o meglio la contronatura dei poeti (“perché la loro forma di esistere è la trasgressione”), le lettere alle sorelle e le conversazioni bernesi. A Herr Fuchs, malinconico e astuto uomo d’affari, Clarice rivela: “La mia lingua è un cavallo”. E difatti la scrittura di Lispector, “una Virginia Woolf amazzonica, arruffata e vagamente stregonesca”, come la definì Roberto Calasso, pullula di animali. Degli animali cerca di catturare lo sguardo, forse proprio perché tra gli uomini si sente “spaesata”, come pensa di sé con un sorriso. Non a caso il giardino zoologico di Berna è luogo di frequenti visite: è lì, ad esempio, che avviene il primo incontro con Irma, moglie di un professore ginevrino e importante personaggio femminile del romanzo, insieme a Frau Rodde. In un bestiario dove proliferano cavalli farfalle bufali vermi pesci, un posto a parte occupa il cane, che apre e in un certo senso chiude il libro: al ricordo del fedele Dilermando, il cane che la scrittrice abbandonò in Italia prima di trasferirsi in Svizzera, si affianca la figura di Ulisse Grysoler, l’unico terapeuta che Clarice conobbe nella sua vita e che frequentò proprio durante il soggiorno bernese. Una figura ben umana, certo; e che pure troverà una certa reincarnazione nell’ultimo cane che possedette la scrittrice e che ebbe proprio il nome di Ulisse (cane che la sfigurò, per altro). Il libro si chiude proprio con il distacco da Grysoler e con la proiezione verso la periferia distante e immaginaria di Sâo Geraldo, che diverrà teatro de La città assediata. Clarice scrive il suo romanzo, aspetta un figlio: su di lei, sulle sue dighe, “adesso ha cominciato a piovere e sarà per sempre”.