Roberto Calasso amava i gialli, il cinema e le folgoranti dominazioni letterarie orientali, passate poi in Medioriente e in Occidente attraverso la propria idea di sguardo insieme alla necessaria visione di Bazlen – e se quest’ultimo mai si sognò di dare alle stampa un’opera, Calasso al contrario l’Opera la scrive e la pubblica nel corso di circa quattro decenni. Undici volumi: dalla Rovina di Kasch a La tavoletta dei destini. Con un contorno di libri inarrivabili come Allucinazioni americane, Come ordinare una biblioteca, Bobi, L’impuro folle, La letteratura e gli dèi… E infine Ciò che si trova solo in Baudelaire. Baudelaire, colui che si trovava bene nel luogo riscaldato del Louvre (si era intorno al 1847), senza annoiarsi così come accadeva in altri luoghi confondendosi nella folla sciamante.
Baudelaire comparso negli incrocianti crocevia d’Europa: lui stesso, Parigi, il Continente, l’Ottocento. Calasso lo prende con sé non come fratello ma come aruspice dei sensi, sedi di quel groviglio di viscere mentali che inizia a farsi strada fuori dai teschi umani. Un’intelligenza che lo porta a scrivere su pittori, oggi immeritatamente oscurati, stando ben dentro i pericolosi palpiti della vita, camminando sulle stesse strade di Gautier e Hugo, ma sempre in modo diverso, così come ci spiega Calasso fin dalle prime pagine: Baudelaire si fa avanti, “va oltre”, dentro la ferita che gli procurano le sue ali: “ingombranti”, senza dubbio. Così la pittura di Delacroix lo sprona a varcare gli eccessi, a porre la propria esistenza come varco e dando al contempo dello stupido ai più che circolavano nei Salons muniti di libretto d’istruzioni. E cosa lo portava a consigliare la lettura di Diderot accanto alle sue prima pagine? L’oscillazione psichica, risponde Calasso, la sensibilità e l’ironia unite fino al limite del cinismo e allontanando la pigrizia con l’insolenza. Difficile capire questi strani accordi, ma è definitivo: “qualcosa” c’è in Baudelaire, oggi, e bisogna trovarlo. Forse rincorrerlo. Egli scruta le nubi, e le attraversa, e il marchio dell’Ottocento andrebbe oggi rivisto, tramite studi educati e civili negli attuali turbamenti virali (che non sono soltanto quelli diffusi dai malefizi proteici del Covid).
E non dimentichiamo, avverte Calasso, che c’è stato bisogno di Nietzsche per liquidare certe “pretese” atte a ordinare le cose, poiché proprio Baudelaire annuncia che si trova bene nel suo “sistema”, comodo e sempre in vista di prodotti spontanei e inattesi. L’esistenza ha i suoi metodi, e nella ragnatela dell’Ottocento l’intelligenza non poteva essere messa da parte. Non così accade per il secolo attuale, avendo come precursore lo sbandato, talvolta geniale, “innominabile” e corrotto Novecento. Dove è finita l’analogia, suprema scienza, di Baudelaire? Negli ornamenti postumi, forse, nelle imbarazzanti traduzioni: ma quanto è significativo farsi attraversare dal pensiero acuto che passa nella Folie così come Baudelaire stesso entrò nel paesaggio della poesia iniettando le gocce della metafisica? Fare attenzione agli incipit, suggerisce Calasso, perché lì stanno le migliori istruzioni, poiché subito dopo l’elaborazione si ferma, causa assilli sempre presenti. La vita, in Charles, ostacola la vita.
Capitolo dopo capitolo l’ultimo libro di Calasso causa il nostro addentrarci nel bordello-museo, tanto più rispettato se disposto come certe zone del Salon ma sempre temuto nei sogni poiché in casa del poeta si aggira il mostro: “fiore del male” anch’esso, leggiamo, forgiato dalla stupidità corrente. Corrente a quel tempo, va detto – che sull’attuale epoca, quale poeta potrebbe mai mettere mano? Esecrare il Secolo ha bisogno di genio, e la giusta cornice per la stupidità: concentrarsi sul poeta serve soprattutto oggi, a quanto pare, per questo nel vasto numero di versi piatti e dimenticabili dovremmo rivolgerci al peso dei restanti che possono farci vedere la distruzione che ancora una volta si pone davanti a noi. Baudelaire in un foglietto racconta un sogno, “il crollo di una immensa torre”. Quello che nel futuro sarà un grattacielo è pieno di fenditure e umidità. Baudelaire non sa come avvertire la gente dell’imminente rovina. Pensa a come le macerie saranno imbrattate di carne e ossa umane. Il foglietto venne stampato un secolo dopo, nessuno se ne accorse. “Tutto corrispondeva, con una sola aggiunta: le torri erano due – e gemelle”.
La potenza, riconosciuta da Proust nelle Fleur, nel nostro tempo non soltanto è inesistente ma sarebbe addirittura inammissibile. Calasso, con ciò che ha trovato in Baudelaire, ci accompagni oltre l’attualità grezza d’oggi.