Più di due decenni fa Roberta Castoldi esordì con La scomparsa, raccolta poetica del 1998 presentata da Franco Loi in una collana (Lietocolle, editore Michelangelo Camelliti) che diede in pochi anni una certa forza rinnovatrice alla ricerca poetica. Nuovi autori e autrici con decisione espressiva si preparavano a mostrarsi ed essere riconosciuti. La stringatissima nota biografica informava che Roberta scriveva e suonava il violoncello. Una presenza non comune, dunque, discorde dal titolo del suo libro, che presagiva qualcosa di caratterizzante una vita nel cui pieno iniziarono a dispiegarsi le ali tanto far lievi le membra e allestire un distacco da terra.
Si diceva che nei suoi versi Castoldi lasciasse le pietre al fondo, e che la biografia per osmosi (fra la patina d’umido del suolo e il sudore della pelle) raggiungesse una velocità di fuga radicale, avventurandosi sopra l’orizzonte intero, accarezzando i dettagli, non per tattica di sopravvivenza ma per mostrare la scelta dell’unica lingua per lei possibile. Parole “sedute” tutt’intorno, coscienti d’ogni risvolto animato della realtà, suoni se vogliamo intenderci, modulati secondo le dinamiche del vivere. Non sembri il conformismo dell’indistinto, tutto questo, ma l’autentica rappresentazione del mondo mentre si fa carico di chi sonda il filo dell’orizzonte, e ne scopre le equazioni date allo sguardo perché faccia la sua parte.
Se poi l’autrice dichiara il proprio innamoramento, e mette in mostra la gentilezza della matematica, si apre per noi la natura stessa della poesia. Di questa poesia. Nuova e unita all’antico atto poetico. Dunque La formula dell’orizzonte esprime storia, fondali e aperture chilometriche sul futuro. Dai “Cicli” (capitoli) della Scomparsa si torna alla pratica del visibile, percepiamo la mente trasparire dal corpo al terreno della geografia pubblica: la mappa territoriale, sgranata e germogliante, di Castoldi.
Sui terreni già definiti da altri (non sempre con giusto merito) lei pone domande tenaci, in direzione di chi ancora ha sguardo. Un buon sistema, questo, per non perdere le origini e intrecciare consapevolmente i movimenti della materia terrestre agli umani. È una concretezza rivolta a coloro che danno nomi alle cose, ai villaggi e alle città, il definire in ogni poesia la torcia che rischiara (e scandaglia) i sentieri da qui all’orizzonte. Il cui filo si sposta secondo l’altezza a cui ci troviamo. E se a ogni fermata la poetessa regala una capanna, è proprio in quel luogo che all’improvviso non manca più niente: quanto meno c’è una bussola che tiene stretta la lingua esatta e positiva, e avverte del destino storico in cui agli umani è permesso cambiare. Restando nei dettagli.