Robert Coover, l’amico americano di Huck Finn

Robert Coover, Huck Finn nel West, tr. Riccardo Duranti, NNEditore, pag. 364, euro 19,00 stampa, euro 8,99 epub

Non è la prima volta che personaggi letterari escono dai libri dei loro creatori per diventare i protagonisti di una storia di altri scrittori. Se poi questi “altri” rispondono al nome di Robert Coover, uno dei grandi vecchi della letteratura postmoderna, il risultato, oltre che di qualità, sarà senz’altro di una rilevanza sociale sorprendente. Uscito in America nel 2017, quando l’autore aveva ottantacinque anni, sembra essere la prova tangibile che Coover non intende ancora lasciare la scena letteraria. Lessi circa venti anni fa Il gioco di Henry e rimasi colpito dall’originalità della trama e di come fosse scritto: uscito nel ’68, ruota attorno al gioco del baseball. È un romanzo in cui si intravede la realtà virtuale, la finzione presente nelle nostre esistenze e il bisogno di creare realtà alternative. Stavolta riprende personaggi di culto, quell’Huckleberry Finn e Tom Sawyer partoriti dalla mente di Mark Twain un secolo e mezzo fa, di cui aveva narrato Le avventure. Le loro gesta ripartono più o meno dove li avevamo lasciati, immersi in questa storia nell’America del West visto, giustamente, come periodo storico e fondante del paese oggi più potente del mondo.

Huck Finn è un uomo semplice, disilluso e senza istruzione che ha fatto dell’esperienza sulla strada la sua scuola di vita. Ha un caro amico pellerossa, e malgrado la sua ingenuità – forse meglio dire grazie e non malgrado –, ha qualche problema a comprendere come mai i nordisti e i sudisti, appena usciti dalla guerra civile, continuino a essere così crudeli con quelli che considerano il nemico comune. Del resto, i nativi rivendicano solamente il diritto sulle proprie terre. Assiste a esecuzioni di massa tramite impiccagioni, alla sistematica eliminazione immediata di ogni pellerossa che si intrometta nella vita e negli obiettivi dei colonizzatori. E non capisce perché i neri, non più schiavi, non siano ancora completamente liberi, restando prigionieri di pregiudizi che la guerra non è riuscita a estirpare. Vive alla giornata, accontentandosi delle prede delle sue caccie, sempre pronto a condividere quello che ha con i suoi amici.

Dopo parecchio tempo incontra di nuovo il suo amico Tom, che lo salva da una morte certa. Lui ha preso una strada diversa: è diventato avvocato – o almeno così sostiene –, ricerca il potere per ottenere ricchezza, si erige a giudice imparziale e sopra le parti quando invece vuole soltanto perseguire i propri interessi. E per questo non sembra troppo addolorato dalle esecuzioni dei pellerossa da parte di coloro che si definiscono “il popolo di Dio” e non esita a chiedere aiuto a criminali se questo serve ai suoi scopi.

I colpi di scena nella trama di questo Huck Finn nel West si susseguono senza soluzione di continuità, il ritmo della narrazione, dove appaiono altri personaggi creati da Mark Twain, è sempre serrato e senza pause, lo stile asciutto e omogeneo. E le contraddizioni e le brutture di più di un secolo fa sono le stesse che ritroviamo, in forme più raffinate ma meno esplicite, negli Stati Uniti di oggi: il razzismo, il fanatismo religioso, lo sfruttamento dei più deboli, la società dei consumi che nutre il capitalismo, l’assoluta mancanza di accoglienza e solidarietà sono ancora i vizi di un paese che è considerato ancora da molti come la terra della libertà. Ma soprattutto dei diritti negati, aggiungerei io.

Concluderei sottolineando l’ottima traduzione di Riccardo Duranti che in una prefazione al romanzo ci racconta come si sia trovato di fronte a un impegno per nulla semplice, e a tutte le tecniche che ha adottato per rendere il testo il più conforme possibile all’originale.